mercoledì 6 febbraio 2013

SPECIALE HCS: GALILEO GALILEI


Galileo Galilei (Pisa15 febbraio 1564 – Arcetri8 gennaio 1642) è stato un fisicofilosofoastronomo e matematico italiano, considerato il padre dellascienza moderna.
Il suo nome è associato ad importanti contributi in dinamica[1] e in astronomia - fra cui il perfezionamento del telescopio, che gli permise importanti osservazioni astronomiche[2] - e all'introduzione del metodo scientifico (detto spesso metodo galileiano o metodo scientifico sperimentale). Di primaria importanza furono il suo ruolo nella rivoluzione astronomica e il suo sostegno al sistema eliocentrico e alla teoria copernicana.
Sospettato di eresia e accusato di voler sovvertire la filosofia naturale aristotelica e le Sacre Scritture, Galileo fu processato e condannato dal Sant'Uffizio[3], nonché costretto, il 22 giugno 1633, all'abiura delle sue concezioni astronomiche e al confino nella propria villa di Arcetri. Questo processo è stato annullato 359 anni dopo, il 31 ottobre 1992, dal cardinale Poupard che scrive che la condanna del 1633 fu ingiusta e arretrata, per un'indebita commistione di teologia e cosmologia pseudo-scientifica[4] e da Papa Giovanni Paolo II, nel suo discorso ai partecipanti alla sessione plenaria della Pontificia Accademia delle scienze[5].

La giovinezza (1564-1588) [modifica]

Galileo Galilei nacque il 15 febbraio 1564 a Pisa,[6] primogenito dei sette figli di Vincenzo Galilei e di Giulia Ammannati.[7] Gli Ammannati, originari delle terre di Pistoia e di Pescia, vantavano origini prestigiose: un Tommaso Ammannati (ca 1345 - 1396), fu fatto cardinale da Clemente VII nel 1385, mentre il fratello Bonifazio (ca 1350 - 1399) ottenne la porpora nel 1397 da uno dei successori di Clemente, l'antipapa Benedetto XIII; quanto a Giacomo Ammannati Piccolomini (1422 - 1479), cardinale dal 1477, fu umanista, continuatore dei Commentarii di Pio II e autore di unaVita dei papi che è andata perduta.
Si comprende come Giulia Ammannati non mancasse di far rilevare la disparità di origini a Vincenzo, per quanto gli antenati del marito fossero appartenuti alla buona borghesia fiorentina: si ricorda un Tommaso Bonaiuti, che fece parte del governo di Firenze dopo la cacciata del Duca di Atene nel 1343, e un Galileo Bonaiuti (1370 - ca 1450), medico noto al suo tempo e gonfalonieredi giustizia, il cui sepolcro nella Basilica di Santa Croce divenne la tomba dei suoi discendenti; a partire da Galileo Bonaiuti il cognome della famiglia cambiò in Galilei. Però Vincenzo era nato aSanta Maria a Monte nel 1520, quando ormai la sua famiglia era decaduta ed egli, musicista di valore, dovette trasferirsi a Pisa unendo, per necessità di maggiori guadagni, all'esercizio dell'arte della musica la professione del commercio. Il 9 luglio 1563 Vincenzo prende in locazione una casa in Via dei Mercanti a Pisa da Giuseppe Bocca mentre, tra coloro con cui era in affari, spicca il nome del patrizio pisano Iacopo della Seta,[8] membro dell'Accademia degli Svegliati.
Liutista, insegnante e teorico musicale - aveva fatto parte della Camerata fiorentina dei Bardi - era entrato in conflitto con la tradizione classica sostenuta dal suo maestro Zarlino, che attribuiva la consonanza tra tutti i suoni al controllo delle proporzioni numeriche e, con il suo Discorso intorno all'Opera di Messer Gioseffo Zarlino da Chioggia e il Dialogo della musica antica e della moderna, aveva proposto di ritornare alla melodia monodica contro l'imperante polifonia contrappuntistica.
Degli altri sei figli di Vincenzo e di Giulia, sono rimaste alcune notizie di Pietro Paolo, di Virginia, nata nel 1573, di Michelangelo, nato nel 1575, e di Livia, nata nel 1578, come il fratello Michelangelo, a Firenze, dove la famiglia Galilei era ritornata nel 1574. Il giovane Galileo fece i suoi primi studi a Pisa sotto Muzio Tedaldi, doganiere della città, e a Firenze, prima col padre, poi con un maestro di dialettica e infine nella scuola del convento di Santa Maria di Vallombrosa, dove vestì l'abito di novizio fino all'età di quattordici anni.[9]
Il matematico Ostilio Ricci
Vincenzo, il 5 settembre 1581, iscrisse il figlio all'Università di Pisa con l'intenzione di fargli studiare medicina, come a volere che Galileo ripercorresse la tradizione del suo glorioso antenato e soprattutto intraprendesse una carriera che poteva riservare lucrosi guadagni; nonostante il suo interesse per i progressi sperimentali di quegli anni, l'attenzione di Galileo fu presto attratta dalla matematica, che cominciò a studiare dall'estate del 1583, sfruttando l'occasione della conoscenza fatta a Firenze di Ostilio Ricci da Fermo, un seguace della scuola matematica di Niccolò Tartaglia. Caratteristica del Ricci era l'impostazione che egli dava all'insegnamento della matematica: non di una scienza astratta, ma di una scienza che servisse a risolvere i problemi pratici legati alla meccanica e alle tecniche ingegneristiche. È probabile che a Pisa Galileo abbia seguito anche i corsi di fisica tenuti dall'aristotelico Francesco Bonamico: lo testimonierebbe la coincidenza di argomentazioni esistente tra gli Juvenilia, gli appunti di fisica abbozzati da Galileo in questo periodo, e i dieci libri del De motu del Bonamico.
Durante la sua permanenza a Pisa, protrattasi fino al 1585, Galileo arrivò alla sua prima, personale scoperta, l'isocronismo delle oscillazioni del pendolo.
Cortile dello Studio di Pisa
Fu così che, dopo quattro anni, il giovane Galileo rinunciò a proseguire gli studi di medicina a Pisa e andò a Firenze, dove approfondì i suoi nuovi interessi scientifici, occupandosi di meccanica e di idraulica; nel 1586 inventò uno strumento per la determinazione idrostatica della densità dei corpi: ne descrive i dettagli nel breve trattato La bilancetta, circolato prima fra i suoi conoscenti e pubblicato postumo nel 1644. L'influsso di Archimede e dell'insegnamento del Ricci si rileva anche nei suoi studi sul centro di gravità dei solidi, espressi nel Theoremata circa centrum gravitatis solidorum, pubblicato solo nel 1638 in appendice ai Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, e trovò una soluzione al problema della coronadi Erone.
Galileo cercava intanto una regolare sistemazione economica: oltre a impartire lezioni private di matematica a Firenze e a Siena, nel 1587 andò a Roma a richiedere una raccomandazione per entrare nello Studio di Bologna al famoso matematico Christoph Clavius,[10] ma inutilmente, perché a Bologna gli preferirono alla cattedra di matematica il padovano Giovanni Antonio Magini. Su invito dell'Accademia Fiorentina tenne nel 1588 due Lezioni circa la figura, sito e grandezza dell'Inferno di Dante, difendendo le ipotesi già formulate da Antonio Manetti sulla topografia dell'Inferno immaginato da Dante finché, nel 1589, raccomandato dal cardinaleFrancesco Maria Del Monte, fratello del matematico Guidobaldo, ottenne dal granduca Ferdinando I un contratto triennale per tenere la cattedra di matematica nello Studio di Pisa.

L'insegnamento a Pisa (1589-1592) [modifica]

Pendolo di Galilei a Pisa
Frutto dell'insegnamento pisano è il manoscritto De motu antiquiora, che raccoglie una serie di lezioni nelle quali egli cerca di dar conto del problema delmovimento. Base delle sue ricerche è il trattato, pubblicato a Torino nel 1585Diversarum speculationum mathematicarum liber di Giovanni Battista Benedetti, uno dei fisici sostenitori della teoria dell’«impeto» come causa del «moto violento». Benché non si sapesse definire la natura di un tale impeto impresso ai corpi, questa teoria, elaborata per la prima volta nel VI secolo da Giovanni Filopono e poi sostenuta dai fisici parigini, pur non essendo in grado di risolvere il problema, si opponeva alla tradizionale spiegazione aristotelica del movimento come prodotto del mezzo nel quale i corpi stessi si muovono.
A Pisa Galileo non si limitò alle sole occupazioni scientifiche: risalgono infatti a questo periodo le sue Considerazioni sul Tasso che avranno un seguito con lePostille all'Ariosto: si tratta di note sparse su fogli e annotazioni a margine nelle pagine dei suoi volumi della Gerusalemme e dell'Orlando furioso dove, mentre rimprovera al Tasso «la scarsezza della fantasia e la monotonia lenta dell'immagine e del verso, ciò che ama nell'Ariosto non è solo lo svariare dei bei sogni, il mutar rapido delle situazioni, la viva elasticità del ritmo, ma l'equilibrio armonico di questo, la coerenza dell'immagine l'unità organica - pur nella varietà - del fantasma poetico».[11]
Nell'estate del 1591 il padre Vincenzo morì, lasciando a Galileo l'onere di mantenere tutta la famiglia: per il matrimonio della sorella Virginia, sposatasi quello stesso anno[12], Galileo dovette provvedere alla dote, contraendo dei debiti, così come dovrà fare per le nozze della sorella Livia nel 1601[13] e altri denari dovrà spendere per soccorrere le necessità della numerosa famiglia del fratello Michelangelo.[14] Non bastando il modesto stipendio di sessanta scudi all'anno, e nell'imminenza della scadenza del suo contratto, Galileo si rivolse nuovamente all'influente amico Guidobaldo Del Monte che lo raccomandò al prestigioso Studio di Padova, dove era ancora vacante la cattedra di matematica dopo la morte, nel 1588, del professore Giuseppe Moleti.
Il 26 settembre 1592 le autorità della Repubblica di Venezia emanarono il decreto di nomina, con un contratto, prorogabile, di quattro anni e con uno stipendio di 180 fiorini l'anno. Il 7 dicembreGalileo tenne a Padova il discorso introduttivo e dopo pochi giorni iniziò un corso destinato ad avere un grande seguito presso gli studenti. Vi resterà per 18 anni, che definirà «li diciotto anni migliori di tutta la mia età».[15]

Il periodo padovano (1592-1610) [modifica]

Nel dinamico ambiente dello Studio di Padova - risultato anche del clima di relativa tolleranza religiosa garantito dalla Repubblica veneziana - Galileo intrattenne rapporti cordiali anche con personalità di orientamento filosofico e scientifico lontano dal suo, come il docente di filosofia naturale Cesare Cremonini, filosofo rigorosamente aristotelico. Egli frequentò anche i circoli colti e gli ambienti senatoriali di Venezia, ove strinse amicizia con il nobile Giovanfrancesco Sagredo, che Galileo renderà protagonista del suo Dialogo sopra i massimi sistemi, e con Paolo Sarpi, teologo ed esperto altresì di matematica e di astronomia. È contenuta proprio nella lettera indirizzata il 16 ottobre 1604 al frate servita la formulazione della legge sulla caduta dei gravi:
« gli spazii passati dal moto naturale[16] esser in proportione doppia dei tempi, e per conseguenza gli spazii passati in tempi eguali esser come ab unitate, et le altre cose. Et il principio è questo: che il mobile naturale vadia crescendo di velocità con quella proportione che si discosta dal principio del suo moto; come v. g., cadendo il grave dal termine a per la linea abcd, suppongo che il grado di velocità che ha in c al grado di velocità che ebbe in b esser come la distanza ca alla distanza ba, e così conseguentemente in d aver grado di velocità maggiore che in c secondo che la distanza da è maggiore della ca.[17] »
Galileo aveva tenuto a Padova lezioni di meccanica dal 1598: il suo Trattato di meccaniche, stampato a Parigi nel 1634, dovrebbe essere il risultato dei suoi corsi, che avevano avuto origine dalle Questioni meccaniche di Aristotele. Diversamente dal filosofo greco, per il quale esistono due moti «naturali», cioè spontanei, dipendenti dalla sostanza dei corpi, uno diretto verso il basso, tipico dei corpi di terra e d'acqua, e uno verso l'alto, tipico dei corpi d'aria e di fuoco, per Galileo qualunque corpo tende a cadere verso il basso, nella direzione del centro della Terra. Se vi sono corpi che salgono verso l'alto è perché il mezzo nel quale si trovano, avendo una densità maggiore, li spinge in alto, secondo il noto principio già espresso da Archimede: la legge sulla caduta dei gravi di Galileo, prescindendo dal mezzo, è pertanto valida per tutti i corpi, qualunque sia la loro natura.
Copertina Dialogo
Nello Studio di Padova Galileo attrezzò, con l'aiuto di Marcantonio Mazzoleni, un artigiano che abitava nella sua stessa casa, una piccola officina nella quale eseguiva esperimenti e fabbricava strumenti che vendeva per arrotondare lo stipendio. È del 1593 la macchina per portare l'acqua a livelli più alti, per la quale ottenne dal Senato veneto un brevetto ventennale per la sua utilizzazione pubblica. Dava anche lezioni private - suoi allievi furono, tra gli altri, Vincenzo Gonzaga, il principe d'Alsazia Giovanni Federico, i futuri cardinali Guido Bentivoglio e Federico Cornaro - e ottenne aumenti di stipendio: dai 320 fiorini percepiti annualmente nel 1598, passò ai 1.000 ottenuti nel 1609.
Verso il 1594 compose due trattati sulle opere di fortificazione, la Breve introduzione all'architettura militare e il Trattato di fortificazione; intorno al 1597 Galileo fabbricò un compasso, che descrisse nell'opuscolo Le operazioni del compasso geometrico et militare, pubblicato a Padova nel 1606 e dedicato a Cosimo II. Il compasso era strumento già noto e, in forme e per usi diversi, già utilizzato, né Galileo pretese di attribuirsi particolari meriti per la sua invenzione: ma il milaneseBaldassarre Capra (ca 1580 - 1626), allievo di Simon Mayr, nel suo scritto Usus et fabrica circini cuiusdam proportionis, lo accusò di aver plagiato una sua precedente invenzione. Il 9 aprile 1607 Galileo ribaltò le accuse del Capra, ottenendone la condanna da parte dei Riformatori dello Studio padovano e pubblicò a sua volta una Difesa contro alle calunnie et imposture di Baldassar Capra.
La Supernova di Keplero
Capra aveva già polemizzato con Galileo nel 1604 a proposito di una "nuova stella", vista il 9 ottobre dall'astronomo fra' Ilario Altobelli, il quale ne informò Galileo.[18] Luminosissima, fu osservata il 17 ottobre anche da Keplero, che ne fece oggetto di uno studio, il De Stella nova in pede Serpentarii, così che quella stella è oggi nota come Supernova di Keplero.
Dialogo Pagina 1
Su quel fenomeno astronomico Galileo tenne tre lezioni, il cui testo non ci è noto, ma contro le sue argomentazioni scrisse l'aristotelico Antonio Lorenzini, probabilmente su suggerimento di Cesare Cremonini, e contro entrambi intervenne anche il Capra. Da loro sappiamo che Galileo aveva interpretato il fenomeno come prova della mutabilità dei cieli, sulla base del fatto che, non presentando la "nuova stella" alcun cambiamento di parallasse, essa dovesse trovarsi oltre l'orbita della Luna. Galileo rispose alle critiche con un caustico libretto scritto in lingua veneto-padovana[19] in cui, nascondendosi sotto lo pseudonimo di Cecco de Ronchitti, difese la validità del metodo della parallasse per determinare le distanze - o almeno la distanza minima - anche di oggetti accessibili all'osservatore solo visivamente, quali sono gli oggetti celesti.
L'apparizione della supernova creò grande sconcerto nella società e Galileo non disdegnò di approfittare del momento per elaborare, su commissione, oroscopi personali[20] al prezzo di 60 lire venete[21]. Peraltro, nella primavera di quel medesimo anno, il 1604, Galileo era stato messo sotto accusa dall'Inquisizione di Padova a seguito di una denuncia di un suo ex-collaboratore, che lo aveva accusato precisamente di aver effettuato oroscopi e di aver sostenuto che gli astri determinano le scelte dell'uomo. Il procedimento, però, fu energicamente bloccato dal Senato della Repubblica veneta e il dossier dell'istruttoria venne insabbiato, così che di esso non giunse mai alcuna notizia all'Inquisizione romana, ossia al Sant'Uffizio.[22]
Non sembra che, negli anni della polemica sulla "nuova stella", Galilei si fosse già pubblicamente pronunciato a favore della teoria copernicana: si ritiene[23] che egli, pur intimamente convinto copernicano, pensasse di non disporre ancora di prove sufficientemente forti da ottenere invincibilmente l'assenso della universalità degli studiosi. Aveva, tuttavia, espresso privatamente la propria adesione al copernicanesimo già nel 1597: in quell'anno, infatti, a Keplero - che aveva recentemente pubblicato il suo Prodromus dissertationum cosmographicarum - scriveva di essere copernicano da molti anni e di aver prove (che però non espose) a sostegno di Copernico, «praeceptoris nostri».[24]

Il cannocchiale [modifica]

Le prove a sostegno della teoria copernicana potevano essere offerte solo dopo meticolose osservazioni e lo strumento che le avrebbe rese possibili era stato appena inventato. Di ottica si erano occupati Giovanni Battista Della Porta[25] nella sua Magia naturalis (1589) e nel De refractione (1593), e Keplero negli Ad Vitellionem paralipomena, del 1604, opere dalle quali era possibile pervenire alla costruzione del cannocchiale: ma lo strumento fu costruito per la prima volta, indipendentemente da quegli studi nei primi anni del XVII secolo dall'artigiano Hans Lippershey, noto anche come Johann Lippershey o Lipperhey (Wesel1570 – Middelburgsettembre 1619), un ottico tedesco naturalizzato olandese. Galileo ne ebbe notizia - e forse anche un esemplare - nella primavera del 1609 e, ricostruito e potenziato empiricamente,[26] il 21 agosto lo presentò come propria invenzione al governo veneziano che, apprezzando l'«invenzione», gli raddoppiò lo stipendio e gli offrì un contratto vitalizio d'insegnamento[27].
Il Sidereus Nuncius
Per tutto il resto di quell'anno Galileo s'impegnò nelle osservazioni astronomiche: acquisì informazioni più precise sui monti lunari, sulla composizione della Via Lattea e scoprì i quattro maggiori satelliti di Giove. Le nuove scoperte furono pubblicate il 12 marzo del 1610 nel Sidereus Nuncius, una copia del quale Galileo inviò al granduca di Toscana Cosimo II, già suo allievo, insieme con un esemplare del suo cannocchiale e la dedica dei quattro satelliti, battezzati da Galileo in un primo tempo Cosmica Sidera e successivamente Medicea Sidera («pianeti medicei»). È evidente l'intenzione di Galileo di guadagnarsi la gratitudine della Casa medicea, molto probabilmente non soltanto ai fini del suo intento di ritornare a Firenze, ma anche per ottenere un'influente protezione in vista della presentazione, di fronte al pubblico degli studiosi, di quelle novità, che certo non avrebbero mancato di sollevare polemiche.
Il 5 giugno 1610 il governo fiorentino comunicava allo scienziato l'avvenuta assunzione come «Matematico primario dello Studio di Pisa e Filosofo del Ser.mo Gran Duca senz'obbligo di leggere e di risiedere né nello Studio né nella città di Pisa, et con lo stipendio di mille scudi l'anno, moneta fiorentina». Galileo firmò il contratto il 10 luglio e in settembre raggiunse Firenze.
Qui giunto si premurò di regalare a Ferdinando II, figlio del granduca Cosimo, la migliore lente ottica[28] che aveva realizzato nel suo laboratorio organizzato quando era a Padova dove, con l'aiuto dei mastri vetrai di Murano[29] confezionava «occhialetti» sempre più perfetti e in tale quantità da esportarli, come fece con il cannocchiale mandato all'elettore di Colonia il quale a sua volta lo prestò a Keplero che ne fece buon uso e che, grato, concluse la sua opera Narratio de observatis a se quattuor Jovis satellibus erronibus del 1611, così scrivendo: «Vicisti Galilaee»[30], riconoscendo la verità delle scoperte di Galilei.
Il giovane Ferdinando o qualcun altro ruppe la lente, e allora Galilei gli regalò qualcosa di meno fragile: una calamita "armata", cioè fasciata da una lamina di ferro, opportunamente posizionata, che ne aumentava la forza d'attrazione in modo tale che, pur pesando solo sei once il magnete «sollevava quindici libbre di ferro lavorato in forma di sepolcro»[31]
In occasione del trasferimento a Firenze Galilei lasciò la sua convivente, la veneziana Marina Gamba (1570-1612) conosciuta a Padova, dalla quale aveva avuto tre figli: Virginia (1600-1634) e Livia (1601-1659), mai legittimate, e Vincenzio, che riconobbe nel 1619. Galileo affidò a Firenze la figlia Livia alla nonna, con la quale già conviveva l’altra figlia Virginia, e lasciò il figlio Vincenzio a Padova alle cure della madre e poi, dopo la morte di questa, a una tale Marina Bartoluzzi.[32] In seguito, resasi difficile la convivenza delle due bambine con Giulia Ammannati, Galileo fece entrare le figlie nel convento di San Matteo, ad Arcetri (Firenze), nel 1613, costringendole a prendere i voti non appena compiuti i rituali sedici anni: Virginia assunse il nome di suor Maria Celeste, e Livia quello di suor Arcangela, e mentre la prima si rassegnò alla sua condizione e rimase in costante contatto epistolare con il padre, Livia non accettò mai l'imposizione paterna.[33]

A Firenze [modifica]

La casa fiorentina di Galileo
La pubblicazione del Sidereus Nuncius suscitò apprezzamenti ma anche diverse polemiche. Oltre all'accusa di essersi impossessato, con il cannocchiale, di una scoperta che non gli apparteneva, fu messa in dubbio anche la realtà di quanto egli asseriva di aver scoperto. Sia il celebre aristotelico patavino Cesare Cremonini, sia il matematico bolognese Antonio Magini - che sarebbe l'ispiratore del libello antigalileiano Brevissima peregrinatio contra Nuncium Sidereum scritto da Martin Horký -, pur accogliendo l'invito di Galilei a guardare attraverso il telescopio che egli aveva costruito, ritennero di non vedere alcun supposto satellite di Giove.
Solo più tardi il Magini si ricredette e con lui anche l'astronomo vaticano Christoph Clavius, che inizialmente aveva ritenuto che i satelliti di Giove individuati da Galilei fossero soltanto un'illusione prodotta dalle lenti del telescopio. Era, quest'ultima, un'obiezione difficilmente confutabile nel 1610-1611, conseguente sia alla bassa qualità del sistema ottico del primo telescopio di Galilei,[34] sia all'ipotesi che le lenti potessero non solo potenziare la visione ma anche deformarla. Un appoggio molto importante fu dato a Galileo da Keplero, che, dopo un iniziale scetticismo e una volta costruito un telescopio sufficientemente efficiente, verificò l'esistenza effettiva dei satelliti di Giove, pubblicando a Francoforte nel 1611 la Narratio de observatis a se quattuor Jovis satellibus erronibus.
Cesare Cremonini
Poiché i gesuiti docenti presso il Collegio Romano erano considerati tra le maggiori autorità scientifiche del tempo, il 29 marzo del 1611 Galileo si recò a Romaper presentare le sue scoperte. Fu accolto con tutti gli onori dallo stesso papa Paolo V, dai cardinali Francesco Maria Del Monte e Maffeo Barberini, e dal principeFederico Cesi, che lo iscrisse nell'Accademia dei Lincei, da lui stesso fondata otto anni prima. Il 1º aprile Galileo poteva già scrivere al segretario ducale Belisario Vinta che i gesuiti «avendo finalmente conosciuta la verità dei nuovi Pianeti Medicei, ne hanno fatte da due mesi in qua continue osservazioni, le quali vanno proseguendo; e le aviamo riscontrate con le mie, e si rispondano giustissime».
Galilei, però, a quel tempo non sapeva ancora che l'entusiasmo con il quale egli andava diffondendo e difendendo le proprie scoperte e teorie avrebbe suscitato resistenze e sospetti precisamente in ambito ecclesiastico. Il 19 aprile il cardinale Roberto Bellarmino incaricò i matematici vaticani di approntargli una relazione sulle nuove scoperte fatte da «un valente matematico per mezo d'un istrumento chiamato cannone overo ochiale» e la Congregazione del Santo Uffizio, il seguente17 maggio, precauzionalmente chiese all'Inquisizione di Padova se fosse mai stato aperto, in sede locale, qualche procedimento a carico di Galilei. Evidentemente, la Curia Romana cominciava già a intravedere quali conseguenze «avrebbero potuto avere questi singolari sviluppi della scienza sulla concezione generale del mondo e quindi, indirettamente, sui sacri principi della teologia tradizionale».[35]
Intorno alle macchie solari
Nel 1612 Galileo scrisse il Discorso intorno alle cose che stanno in su l'acqua, o che in quella si muovono - nel quale appoggiandosi alla teoria di Archimede dimostrava, contro quella di Aristotele, che i corpi galleggiano o affondano nell'acqua a seconda del loro peso specifico non della loro forma - provocando la polemica risposta del Discorso apologetico d'intorno al Discorso di Galileo Galilei del letterato e aristotelico fiorentino Ludovico delle Colombe. Il 2 ottobre, a Palazzo Pitti, presenti il granduca e la granduchessa Cristina, e il cardinale Maffeo Barberini, allora suo grande ammiratore, diede una pubblica dimostrazione sperimentale dell'assunto, confutando definitivamente il delle Colombe.
Nel suo Discorso Galileo accennava anche alle macchie solari, che egli sosteneva di aver già osservate a Padova nel 1610, senza però darne notizia: scrisse ancora, l'anno seguente, l'Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, pubblicata a Roma dall'Accademia dei Lincei, in risposta a tre lettere del gesuita Christoph Scheiner che, indirizzate alla fine del 1611 a Mark Welser, annunciavano la sua scoperta delle macchie solari.[36] A parte la questione della priorità della scoperta,[37] lo Scheiner sosteneva erroneamente che le macchie consistevano in sciami di astri rotanti intorno al Sole, mentre Galileo le considerava materia fluida appartenente alla superficie stessa del Sole e ruotante intorno ad esso proprio a causa della rotazione della stella.
Le scoperte astronomiche avvaloravano la teoria eliocentrica: l’esistenza delle fasi di Venere – e anche quelle di Mercurio, parimenti osservate da Galileo - dimostrava che quei pianeti ruotavano intorno al Sole. Galileo, scrivendo a Giuliano de’ Medici il 1º gennaio 1611, affermava che «Venere necessarissimamente si volge intorno al sole, come anche Mercurio e tutti li altri pianeti, cosa ben creduta da tutti i Pittagorici, Copernico, Keplero e me, ma non sensatamente[38]provata, come ora in Venere e in Mercurio».
Il 12 maggio del 1612 ribadiva a Federico Cesi la sua visione copernicana scrivendo come il Sole si rivolgesse «in sé stesso in un mese lunare con rivoluzione simile all'altre de i pianeti, cioè da ponente verso levante intorno a i poli dell'eclittica: la quale novità dubito che voglia essere il funerale o più tosto l'estremo e ultimo giudizio della pseudofilosofia, essendosi già veduti segni nelle stelle, nella luna e nel sole; e sto aspettando di veder scaturire gran cose dal Peripato per mantenimento della immutabilità de i cieli, la quale non so dove potrà esser salvata e celata».
Nel marzo 1614 compì studi sul metodo per determinare il peso dell'aria, calcolando il suo minimo peso, diverso tuttavia da zero. L'aria è infatti circa 760 volte più leggera dell'acqua: gli studiosi dell'epoca, al contrario pensavano, senza alcun supporto sperimentale, che l'aria non avesse alcun peso.

Le lettere copernicane [modifica]

Le cosiddette "lettere copernicane" sono quelle scritte da Galilei per difendere il sistema copernicano e per chiarire la sua concezione della scienza. Le lettere sono quattro: una a padre Benedetto Castelli, due a monsignor Pietro Dini, una alla granduchessa madre Cristina di Lorena.

L'esegesi biblica e l'eliocentrismo [modifica]

Copernico
Convinto della correttezza della cosmologia copernicana, Galileo naturalmente era ben consapevole che questa non si accordava con diverse affermazioni della Bibbia e di Padri della Chiesa, che attestavano invece una concezione geocentrica dell'Universo. E poiché la Chiesa considerava le Sacre Scritture ispirate dallo Spirito Santo, la teoria eliocentrica poteva essere accettata, al più, soltanto come un semplice modello matematico senza alcuna attinenza con la reale posizione dei corpi celesti.[39] Proprio sotto questa condizione, il libro del Copernico - il De revolutionibus orbium coelestium - non era stato ancora condannato dalle autorità ecclesiastiche.
Benedetto Castelli
Galileo, scienziato cattolico, crede di poter risolvere il problema rovesciando la soluzione allora corrente: la teoria copernicana è vera, sono le Scritture a essere state scritte - quando era il caso - senza corrispondenza con la realtà, utilizzando un linguaggio che esprime un modello utile e comprensibile all'uomo. Il 21 dicembre 1613 scrisse infatti all'allievo e amico benedettinoBenedetto Castelli - matematico copernicano allora lettore a Pisa - che «se bene la Scrittura non può errare, potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de' suoi interpreti ed espositori, in varii modi: tra i quali uno sarebbe gravissimo e frequentissimo, quando volessero fermarsi sempre nel puro significato delle parole, perché così vi apparirebbono non solo diverse contradizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora; poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali e umani, come d'ira, di pentimento, d'odio, e anco talvolta l'obblivione delle cose passate e l'ignoranza delle future»
Gustave DoréGiosuè ferma il Sole
Dev'essere allora che molte proposizioni della Bibbia sono accomodate per poter essere comprese dai semplici illetterati: tra questi accomodamenti deve rientrare anche il noto episodio della richiesta di Giosuè a Dio di fermare il Sole per prolungare il giorno: «io dico che questo luogo ci mostra manifestamente la falsità e impossibilità del mondano sistema Aristotelico e Tolemaico, e all'incontro benissimo s'accomoda co 'l Copernicano».
E spiega Galileo che se s'interpretasse alla lettera il passo biblico, ne verrebbe che secondo il sistema tolemaico, fermando il Sole, il giorno non si sarebbe prolungato ma, al contrario, accorciato: «Essendo, dunque, assolutamente impossibile nella costituzion di Tolomeo e d'Aristotile fermare il moto del Sole e allungare il giorno, sì come afferma la Scrittura esser accaduto, adunque o bisogna che i movimenti non sieno ordinati come vuol Tolomeo, o bisogna alterar il senso delle parole, e dire che quando la Scrittura dice che Iddio fermò il Sole, voleva dire che fermò 'l primo mobile, ma che, per accomodarsi alla capacità di quei che sono a fatica idonei a intender il nascere e 'l tramontar del Sole, ella dicesse al contrario di quel che avrebbe detto parlando a uomini sensati». Al contrario, adottando l'interpretazione eliocentrica dell'Universo, per prolungare «lo spazio e 'l tempo della diurna illuminazione, bastò che fosse fermato il Sole, com'appunto suonan le parole del sacro testo».
Analoghe considerazioni Galileo svolse in lettere indirizzate al monsignore fiorentino Piero Dini e alla granduchessa Cristina di Lorena, le quali destarono preoccupazione negli ambienti conservatori per le idee innovative e per il carattere polemico e l'ardimento con cui lo scienziato consigliò che alcuni passi delle Sacre Scritture venissero reinterpretati alla luce del sistema copernicano. Celebre è la frase: "intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado, l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo"[40], normalmente attribuita al cardinale Cesare Baronio[41].

La disputa con la Chiesa [modifica]

Exquisite-kfind.pngPer approfondire, vedi la voce Il processo a Galileo Galilei.

La denuncia del domenicano Tommaso Caccini [modifica]

BantiGalileo davanti all'inquisizione
Nella Chiesa, due erano i maggiori Ordini tutelari della cultura scientifica e teologica: l'Ordine dei gesuiti, che vantava nelle sue fila numerosi matematici e fisici, e quello domenicano, fedele all'insegnamento dottrinario di san Tommaso, e pertanto sospettoso di ogni novità che a quella metafisica potesse in qualunque modo opporsi. Mentre i gesuiti, in un primo tempo, si mostrarono aperti di fronte alle nuove scoperte astronomiche, furono i domenicani i più decisi oppositori di Galileo, denunciando i pericoli che le teorie galileiane potevano apportare alla tradizionale dottrina della Chiesa. Tuttavia l'atteggiamento dei due Ordini nei confronti di Galileo si rovescerà due decenni dopo: nel 1633 saranno i gesuiti a denunciare il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, coinvolgendo nelle accuse anche i domenicani che avevano autorizzato la pubblicazione dell'opera.
Il 1º novembre 1612 il domenicano Niccolò Lorini denunciò in una predica tenuta nel convento di San Matteo a Firenze le teorie di Copernico - del quale nemmeno conosceva bene il nome - salvo scusarsi il 5 novembre con una lettera a Galileo, nella quale scriveva di non aver voluto accusare lo scienziato - protetto dal Granduca - ma «per non parere uno ceppo morto, sendo da altri cominciato il ragionamento, ho detto due parole per esser vivo, e detto, come dico, che quella opinione di quell'Ipernico, o come si chiami, apparisce che osti alla Divina Scrittura».
Due anni dopo, il 21 dicembre 1614, dal pulpito di Santa Maria Novella a Firenze il frate domenicano Tommaso Caccini (1574 - 1648) lanciava contro certi matematici moderni, e in particolare contro Galileo, l'accusa di contraddire le Sacre Scritture con le loro concezioni astronomiche ispirate alle teorie copernicane. La sua predica si concludeva con un indovinato gioco di parole, tratto dagli Atti degli Apostoli: «Viri Galilaei, quid statis aspicientes in coelum?».[42] A questa si aggiunse ancora il Lorini, con l'invio al cardinale Paolo Emilio Sfondrati, prefetto della Congregazione dell'Indice a Roma, il 7 febbraio 1615, a nome di tutta la comunità del convento di San Marco di Firenze, di una copia della lettera di Galilei al Castelli. Il Lorini rilevava che quella lettera, che sosteneva essergli «capitata per caso nelle mani» e definiva «una scrittura, corrente qua nelle mani di tutti, fatta da questi che domandano Galileisti», conteneva «molte proposizioni che ci paiono o sospette o temerarie».[43]
La Lettera del Foscarini
Tommaso Caccini giunse a Roma, il 20 marzo 1615, e nel palazzo del Santo Uffizio, di fronte ai cardinali BellarminoGalaminiMillini, Sfondrati, TavernaVeralloZapata, denunciò Galileo in quanto sostenitore del moto della Terra intorno al Sole, e anche perché il confratello Ferdinando Ximenes aveva sentito dire da alcuni discepoli di Galileo che «Iddio non è altrimenti sustanza, ma accidente; Iddio è sensitivo, perché in lui son sensi divinali; veramente che i miracoli che si dicono esser fatti da' Santi, non sono veri miracoli».[44] Richiesto della fede cattolica di Galileo, il Caccini rispondeva maliziosamente che egli «da molti è tenuto buon cattolico; da altri è tenuto per sospetto nelle cose della fede, perché dicono sii molto intimo di quel fra Paolo servita, tanto famoso in Venetia per le sue impietà, et dicono che anco di presente passino lettere tra di loro».[45]
Intanto a Napoli era stato pubblicato il libro del teologo carmelitano Paolo Antonio Foscarini (1565-1616), la Lettera sopra l'opinione de' Pittagorici e del Copernico, dedicata a Galileo, a Keplero e a tutti gli accademici dei Lincei, che intendeva accordare i passi biblici con la teoria copernicana interpretandoli «in modo tale che non gli contradicano affatto».[46] Ma che si potesse accordare Bibbia e Copernico non credeva il cardinale Roberto Bellarmino, già giudice, come lo Sfrondati e il Taverna, nel processo di Bruno, il quale il 12 aprile scriveva al Foscarini che
«Primo, dico che V. P. et il Sig.r Galileo facciano prudentemente a contentarsi di parlare ex suppositione e non assolutamente, come io ho sempre creduto che habbia parlato il Copernico. Perché il dire, che supposto che la Terra si muova e il Sole sia fermo si salvano tutte le apparenze meglio che con porre gli eccentrici et epicicli, è benissimo detto, e non ha pericolo nessuno; e questo basta al mathematico: ma volere affermare che realmente il Sole stia nel centro del mondo e solo si rivolti in sé stesso senza correre dall'oriente all'occidente, e che la Terra stia nel 3° cielo e giri con somma velocità intorno al Sole, è cosa molto pericolosa non solo d'irritare i filosofi e theologici scolastici, ma anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante [...] ]
Il cardinale Bellarmino
Secondo, dico che, come lei sa, il Concilio prohibisce le scritture contra il commune consenso de' Santi Padri; e se la P. V. vorrà leggere non dico solo li Santi Padri, ma li commentarii moderni sopra il Genesi, sopra li Salmi, sopra l'Ecclesiaste, sopra Giosuè, troverà che tutti convengono in esporre ad literam ch'il Sole è nel cielo e gira intorno alla Terra con somma velocità, e che la Terra è lontanissima dal cielo e sta nel centro del mondo, immobile. Consideri hora lei, con la sua prudenza, se la Chiesa possa sopportare che si dia alle Scritture un senso contrario alli Santi Padri et a tutti li espositori greci e latini [...]
Terzo, dico che quando ci fusse vera demostratione che il sole stia nel centro del mondo e la terra nel terzo cielo, e che il sole non circonda la terra, ma la terra circonda il sole allhora bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non l'intendiamo che dire che sia falso quello che si dimostra. Ma io non crederò che ci sia tal dimostratione, fin che non mi sia mostrata: né è l'istesso dimostrare che supposto ch'il sole stia nel centro e la terra nel cielo, si salvino le apparenze, e dimostrare che in verità il sole stia nel centro e la terra nel cielo; perché la prima dimostratione credo che ci possa essere, ma della seconda ho grandissimo dubbio, et in caso di dubbio non si dee lasciare la Scrittura Santa esposta da' Santi Padri»
E infatti il Foscarini verrà, per breve tempo, incarcerato l'anno dopo e la sua Lettera proibita. Intanto il Sant'Uffizio stabilì, il 25 novembre 1615, di procedere all'esame delle Lettere sulle macchie solari e Galileo decise di venire a Roma per difendersi personalmente, appoggiato dal granduca Cosimo: «Viene a Roma il Galileo matematico» - scriveva Cosimo II al cardinale Scipione Borghese - «et viene spontaneamente per dar conto di sé di alcune imputazioni, o più tosto calunnie, che gli sono state apposte da' suoi emuli».

Galilei a Roma [modifica]

L'ambasciatore della Corte medicea, Piero Guicciardini, ottimo conoscitore dell'ambiente romano, era ben consapevole dei pericoli incombenti sullo scienziato: «so bene che alcuni frati di San Domenico, che hanno gran parte nel Santo Offizio, et altri, gli hanno male animo addosso; e questo non è paese da venire a disputare sulla luna, né da volere, nel secolo che corre, sostenere né portarci dottrine nuove».[47]
Il 24 febbraio 1616, richiesti dal Sant'Uffizio, i teologi risposero unanimemente che la proposizione «il sole è il centro del mondo e del tutto immobile di moto locale», era «stolta e assurda in filosofia, e formalmente eretica», in quanto contraddiceva molti passi delle Sacre Scritture e le opinioni dei Padri della Chiesa; che la proposizione «la Terra non è il centro del mondo, né immobile, ma da sé si muove anche di moto diurno», era «censurabile in filosofia; riguardo alla verità teologica, almeno erronea nella fede». Di conseguenza, il 25 febbraio il papa ordinò al cardinale Bellarmino di «convocare Galileo e di ammonirlo di abbandonare la suddetta opinione; e se si fosse rifiutato di obbedire, il Padre Commissario, davanti a un notaio e a testimoni, di fargli precetto di abbandonare del tutto quella dottrina e di non insegnarla, non difenderla e non trattarla». Un documento datato 26 febbraio attesterebbe l'avvenuto precetto del Bellarmino e l'obbedienza di Galileo[48] mentre il 5 marzo era reso pubblico il decreto della Congregazione dell'Indice che proibiva e sospendeva «rispettivamente gli scritti di Nicola Copernico De revolutionibus orbium coelestium, di Didaco Stunica su Giobbe e di Paolo Antonio Foscarini, frate carmelitano».
Villa Medici, ambasciata fiorentina a Roma
A cospetto di tale sconfitta dei seguaci delle teorie copernicane, appare ingiustificata la soddisfazione mostrata da Galilei, scrivendo al Picchena, il6 marzo, che la denuncia del Caccini «non ha trovato corrispondenza in S.ta Chiesa [...] onde solo restano proibiti quei libri li quali ex professohanno voluto sostenere che ella non discordi dalla Scrittura [...] All'opera del Copernico stesso si leveranno 10 versi della prefazione a Paolo terzo, dove accenna non gli parer che tal dottrina repugni alle Scritture; e, per quanto intendo, si potrebbe levare una parola in qua e in là, dove egli chiama, 2 o 3 volte, la terra sidus [...] Io, come dalla natura stessa del negozio si scorge, non ci ho interesse alcuno, né punto mi ci sarei occupato, se, come ho detto, i miei nimici non mi ci havessero intromesso [...] un santo non l'haverebbe trattato né con maggior reverenza né con maggior zelo verso S.ta Chiesa: il che forse non hanno fatto i miei nimici, che non hanno perdonato a machine, a calunnie et ad ogni diabolica suggestione [...] conoscerà V. S. con quanta flemma e temperanza io mi sia governato».
Invece l'ambasciatore Guicciardini non lo trovava né flemmatico né temperato, se già il 4 marzo scriveva a Cosimo II che Galilei «s'infuoca nelle sue openioni, ci ha estrema passione dentro, et poca fortezza et prudenza a saperla vincere» e profeticamente comprendeva che Galileo «non scorge et non vede quello bisognerebbe, sì che, come ha fatto sin a hora, ci resterà dentro ingannato, et porterà sé in pericolo».
Galilei rimase ancora a Roma per tre mesi, a discutere e a cercare di convincere delle sue opinioni, così che Guicciardini il 13 maggio scriveva al Picchena, che Galilei «ha un umore fisso di scaponire i frati et combattere con chi egli non può se non perdere [...] lo stare absente da questo paese li sarebbe di gran benefizio et servizio».
Avvenne così che si diffusero voci che Galilei avesse abiurato le sue opinioni copernicane, tanto che lo scienziato, prima di ritornare finalmente a Firenze, sentì la necessità di richiedere, il 26 maggio 1616, una dichiarazione autografa del cardinale Bellarmino così concepita: «Noi Roberto cardinale Bellarmino, havendo inteso che il sig. Galileo Galilei sia calunniato o imputato di havere abiurato in mano nostra, et anco di essere stato per ciò penitenziato di penitenzie salutari, et essendo ricercati della verità, diciamo che il suddetto sig. Galileo non ha abiurato in mano nostra né di altri qua in Roma, né meno in altro luogo che noi sappiamo, alcuna sua opinione o dottrina, né manco ha ricevuto penitenzie salutari né d'altra sorte, ma solo gli è stata denunziata la dichiarazione fatta da Nostro Signore [Paolo V] publicata dalla Sacra Congregazione dell'Indice, nella quale si contiene che la dottrina attribuita al Copernico, che la terra si muova intorno al sole e che il sole stia nel centro del mondo senza muoversi da oriente ad occidente, sia contraria alle Sacre Scritture, e però non si possa difendere né tenere. Et in fede di ciò habbiamo scritta e sottoscritta la presente di nostra propria mano, questo dì 26 di maggio 1616. Il medesimo di sopra, Roberto cardinale Bellarmino».
Il cardinale ribadiva così la proibizione di sostenere le tesi copernicane: forse gli onori e le cortesie ricevute malgrado tutto, fecero cadere Galileo nell'illusione che a lui fosse permesso quello che ad altri era vietato: «nelle contraddizioni e distinzioni e compromessi nati durante il primo processo è l'origine delle future complicazioni del secondo processo di Galileo».[49]

La polemica sulle comete [modifica]

Orazio Grassi: De tribus cometis
Tuttavia Galileo non rispose alla De situ et quiete Terrae contra Copernici systema disputatio che il segretario della Congregazione di Propaganda FideFrancesco Ingoli gli aveva inviato il gennaio precedente a confutazione dell'eliocentrismo, basata sul «moderno» modello di Tycho Brahe: segno che la censura del Sant'Offizio aveva avuto effetto e consigliato Galileo alla prudenza, dalla quale desisterà però otto anni dopo, quando riterrà erroneamente che il clima culturale fosse mutato.
Nel novembre del 1618 comparvero nel cielo tre comete, fatto che attirò l'attenzione e stimolò gli studi degli astronomi di tutta Europa. Fra essi il gesuitaOrazio Grassi, matematico del Collegio Romano, tenne con successo una lezione che ebbe vasta eco, la Disputatio astronomica de tribus cometis anni MDCXVIII: con essa, sulla base di alcune osservazioni dirette e di un procedimento logico-scolastico, egli sosteneva l'ipotesi che le comete fossero corpi situati oltre al «cielo della Luna» e la utilizzava per avvalorare il modello di Tycho Brahe, secondo il quale la Terra è posta al centro dell'universo, con gli altri pianeti in orbita invece intorno al Sole, contro l'ipotesi eliocentrica.
Galilei: Discorso delle comete
Galilei decise di replicare per difendere la validità del modello copernicano. Rispose in modo indiretto, attraverso lo scrittoDiscorso delle comete di un suo amico e discepolo, Mario Guiducci, ma in cui la mano del maestro era certamente presente. Nella sua replica Galileo sosteneva erroneamente che le comete non erano oggetti celesti, ma puri effetti ottici prodotti dalla luce solare su vapori elevatisi dalla Terra, ma indicava anche le contraddizioni del ragionamento di Grassi e le sue erronee deduzioni dalle osservazioni delle comete con il cannocchiale. Il gesuita rispose con uno scritto intitolato Libra astronomica ac philosophica, firmato con lo pseudonimo anagrammatico di Lotario Sarsi, attaccava direttamente Galilei e il copernicanesimo.
Galilei si sentì così in dovere di rispondere direttamente: solo nel 1622 fu pronto il trattato Il Saggiatore. Scritto in forma di lettera, fu inviato nell'ottobre del 1622 all'esame degli accademici dei Lincei, che lo approvarono: dedicato da Galileo all'accademico e maestro di Camera del papa Virginio Cesarini, dopo aver avuto l'imprimatur dal teologo domenicano Niccolò Riccardi, fu stampato nel maggio del 1623 a Roma. Il 6 agosto, dopo la morte di papa Gregorio XV, con il nome diUrbano VIII saliva al soglio pontificio Maffeo Barberini, da anni amico ed estimatore di Galileo. Sembrava che tempi nuovi e promettenti si aprissero: «risorge la speranza, quella speranza che era ormai quasi del tutto sepolta. Siamo sul punto di assistere al ritorno del prezioso sapere dal lungo esilio a cui era stato costretto», scrisse Galileo al nipote del papa Francesco Barberini. Ma s'ingannava.

Il Saggiatore [modifica]

Galilei: Il Saggiatore
Contro la Libra astronomica, titolo mal scelto dal Grassi, perché da lui derivato dall'erronea opinione che le comete fossero apparse nella costellazione dellaBilancia, quando in realtà erano state osservate in quella dello Scorpione, Galileo esercitò brillantemente la sua ironia intitolando la sua risposta, per sottolineare la propria accuratezza rispetto alla grossolanità delle argomentazioni del Grassi, Il Saggiatore, nel quale con bilancia squisita e giusta si ponderano le cose contenute nella Libbra, volendo anche far intendere che le osservazioni empiriche vanno misurate con uno strumento di precisione come il saggiatore, che serve appunto per misurare il peso della polvere d'oro e non con la libbra, l'imprecisa e rozza stadera.
Nella sua opera il sedicente Lotario Sarsi argomentava le sue dimostrazioni tirando in ballo uova, fionde, Babilonesi, argomenti su i quali Galilei così si esprimeva rivendicando la superiorità delle osservazioni empiriche sulle argomentazioni non dimostrate: «Se il Sarsi vuole che io creda che i Babilonii cocesser l'uova col girarle velocemente nella fionda, io lo crederò, ma a noi questo non succede [...] Ora a noi non mancano uova né fionde, né uomini robusti che le girino, e pur non si cuocono [...]. E poiché non ci manca altro che esser di babilonia, adunque l'esser Babilonii è causa dell'indurirsi delle uova, e non l'attrizione dell'aria».
Il Saggiatore resta però un'opera sbagliata, perché sviluppa una teoria delle comete senza fondamento. In positivo, vi sono accenni a corrette soluzioni scientifiche, come la dimostrazione che il calore non è sviluppato dal puro e semplice movimento dei corpi, ma dall'attrito del mezzo, o come le considerazioni sull'aderenza dell'aria e dell'acqua sui corpi, o come la polemica sull'improprio uso del linguaggio comune - grandepiccolovicinolontano - in un ambito che dovrebbe essere rigorosamente scientifico.
Di particolare importanza, nel libro, è l'affermazione - polemica nei confronti del Grassi che si richiamava all'autorità dei maestri del passato per l'accertamento della verità nelle questioni naturali - secondo la quale «la filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto».[50]

La Lettera a Francesco Ingoli [modifica]

Il 23 aprile 1624 Galilei giunse a Roma per rendere omaggio al papa e strappargli la concessione della tolleranza della Chiesa nei confronti del sistema copernicano, ma nelle sei udienze concessegli da Urbano VIII non ottenne da questi alcun impegno preciso in tal senso: come scrisse l'8 giugno a Federico Cesi, il cardinale Hohenzollern aveva parlato della teoria copernicana con il papa che gli aveva risposto «come gli eretici son tutti della sua opinione e l'hanno per certissima e che perciò è da andar molto circospetto nel venire a determinazione alcuna». In ogni caso, la Chiesa non «l'aveva dannata né era per dannarla per eretica, ma solo per temeraria».
Pietro da Cortona: Urbano VIII
Senza nessuna assicurazione ma con il vago incoraggiamento che gli veniva dall'esser stato onorato da papa Urbano - che concesse una pensione al figlio Vincenzio - Galileo ritenne di poter rispondere finalmente, nel settembre del 1624, alla Disputatio di Francesco Ingoli. Galileo sa di non potersi permettere, con il potente segretario della Congregazione di Propaganda Fide e per i suoi trascorsi, alcuna aperta ironia: prudentemente, premette perciò di non voler sostenere «quella posizione che già è stata dichiarata per sospetta e repugnante» alla dottrina della Chiesa e aggiunge che «a confusione degli eretici, tra i quali sento quelli di maggior grido esser tutti dell'opinione di Copernico», intende dimostrare a loro che «noi Cattolici non per difetto di discorso naturale [...] restiamo nell'antica certezza insegnataci da' sacri autori, ma per la reverenza che portiamo alle scritture». Questa riverenza, secondo Galileo, non deve però impedire a un cattolico di intendere ed esporre correttamente i problemi delle scienze astronomiche e naturali così che quegli eretici copernicani «potranno tassarci per uomini costanti nella nostra oppenione, ma non già per ciechi o per ignoranti dell'umane discipline».[51]
Reso formale omaggio all'ortodossia cattolica, nella sua risposta Galileo dovrà confutare le argomentazioni anticopernicane dell'Ingoli senza proporre quel modello astronomico, né rispondere alle argomentazioni teologiche:[52] così, all'argomento che il centro dell'universo è il luogo «più inferiore» e dev'essere occupato dalla Terra perché questa è il corpo «più crasso» di ogni altro corpo celeste, Galileo obietta che non esiste nell'universo un unico luogo inferiore, ma tanti quanti sono i centri di ogni singolo corpo: «noi aremo nell'università del mondo tanti centri e tanti luoghi inferiori e superiori, quanti sono i globi mondani e gli orbi che intorno a diversi punti si raggiano».[53] Quanto poi all'idea che la Terra sia il più «crasso» dei corpi celesti, «né io né voi sappiamo, né possiamo sicuramente sapere»,[54] poiché nessuna esperienza lo dimostra.
Le affermazioni sulla molteplicità dei centri e il noto passo: «è ancora indeciso (e credo che sarà sempre tra le scienze umane) se l'universo sia finito o pure infinito [...] la mente mia non si sa accomodare a concepirlo né finito né infinito»,[55] ha fatto dibattere gli studiosi sulla reale opinione avuta da Galileo. È possibile che Galileo, ben conoscendo la sorte subita da Bruno pochi decenni prima e quella del De revolutionibus copernicano - oltre, naturalmente, la sua stessa vicenda, più tardi, nel 1633 - sia stato spinto «a praticare la virtù della prudenza. Giordano Bruno non viene da lui mai menzionato, né negli scritti né nelle lettere. È però anche possibile che questo problema, come in generale quelli di cosmologia e anche di meccanica celeste, non avesse per lui un grande interesse».[56]
Nella Lettera Galileo enuncia per la prima volta quello che sarà chiamato il principio della relatività galileiana: alla comune obiezione portata dai sostenitori della immobilità della Terra, consistente nell'osservazione che i gravi cadono perpendicolarmente sulla superficie terrestre, anziché obliquamente, come apparentemente dovrebbe avvenire se la Terra si muovesse, Galileo risponde portando l'esperienza della nave nella quale, sia essa in movimento uniforme o sia ferma, i fenomeni di caduta o, in generale, dei moti dei corpi in essa contenuti, si verificano esattamente nello stesso modo, perché «il moto universale della nave, essendo comunicato all'aria ed a tutte quelle cose che in essa vengono contenute, e non essendo contrario alla naturale inclinazione di quelle, in loro indelebilmente si conserva».[57]

Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo [modifica]

Exquisite-kfind.pngPer approfondire, vedi la voce Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo.
Il Dialogo sopra i due massimi sistemi
In quello stesso 1624 Galileo iniziò il suo nuovo lavoro, un Dialogo che, confrontando le diverse opinioni degli interlocutori, gli avrebbe consentito di esporre le varie teorie correnti sulla cosmologia - e dunque anche quella copernicana - senza mostrare di impegnarsi personalmente a favore di nessuna di esse. Ragioni di salute e familiari prolungarono la stesura dell'opera: dovette prendersi cura della numerosa famiglia del fratello Michelangelo, mentre il figlio Vincenzio, laureatosi in legge a Pisa nel 1628, si sposò l'anno dopo con Sestilia Bocchineri, sorella di Geri Bocchineri, uno dei segretari del duca Ferdinando, e di Alessandra, che avrà una qualche parte negli ultimi anni della vita del Nostro. Per esaudire il desiderio della figlia Maria Celeste, monaca ad Arcetri, di averlo più vicino, affittò vicino al convento il villino «Il Gioiello».
Era previsto che il dialogo, il cui titolo avrebbe dovuto essere Del flusso e riflusso, fosse pubblicato a Roma a cura dell'Accademia dei Lincei e Galileo, completata l'opera nel gennaio 1630, vi si recò in marzo per ottenere l'imprimatur ecclesiastico. Ripartì da Roma il 26 giugno, con le assicurazioni degli esaminatori, i domenicani Niccolò Riccardi e Raffaello Visconti, dell'autorizzazione alla stampa con poche modifiche non sostanziali.
Il 1º agosto moriva però Federico Cesi, il patrono dell'Accademia dei Lincei, e questa rinunciò a pubblicare l'opera, così che Galileo decise di pubblicarla a Firenze: qui ottenne rapidamente l'autorizzazione dal domenicano Giacinto Stefani, ma occorreva anche l'autorizzazione da Roma, che tardava a venire. Finalmente, nel luglio del 1631, padre Riccardi inviò all'inquisitore di Firenze l'autorizzazione alla stampa, una bozza di prefazione e l'ordine di mutare il previsto titolo Sul flusso e riflusso: questo titolo, che richiamava quella che Galileo considerava la prova della correttezza del sistema copernicano, fu mutato in Dialogo di Galileo Galilei Linceo, dove ne i congressi di quattro giornate, si discorre sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, e l'opera poté essere pubblicata a Firenze il 21 febbraio 1632.
Tolomeo
I due massimi sistemi sono il tolemaico e il copernicano - Galileo esclude così dalla discussione l'ipotesi recente di Tycho Brahe - e tre sono i protagonisti delDialogo: due sono personaggi reali, amici di Galileo, e all'epoca già defunti, il fiorentino Filippo Salviati (1582-1614) e il veneziano Gianfrancesco Sagredo(1571-1620), nella cui casa si fingono tenute le conversazioni, mentre il terzo, Simplicio, richiama nel nome un noto, antico commentatore di Aristotele, oltre a sottintendere il suo semplicismo scientifico. Egli è il sostenitore del sistema tolemaico, mentre l'opposizione copernicana è sostenuta dal Salviati, svolgendo una funzione più neutrale il Sagredo, che finisce però per simpatizzare per l'ipotesi copernicana.
Il Dialogo si svolge in quattro giornate: nella prima, vengono criticate le vecchie tesi della fisica aristotelica, non fondate o insufficientemente fondate sull'osservazione e sulla verifica sperimentale e prive di un rigoroso supporto matematico: certamente, l'intelletto umano non può lontanamente eguagliare la somma infinita delle conoscenze divine, ma le pur poche conoscenze umane di matematica e di geometria eguagliano la conoscenza divina in quanto raggiungono la «certezza obiettiva».
Nella seconda e terza giornata si confutano le obiezioni contro il moto di rotazione e di rivoluzione terrestre: «qui è forza esclamar un'altra volta ed esaltare l'ammirabil perspicuità del Copernico ed insieme compiagner la sua disavventura, poiché egli non vive nel nostro tempo quando, per tor via l'apparente assurdità del movimento in conserva della Terra e della Luna, vediamo Giove, quasi un'altra Terra, non in conserva di una Luna, ma accompagnato da quattro Lune, andar intorno al Sole in 12 anni».[58]
Nella quarta giornata si espone l'argomento delle maree, quale prova del moto terrestre: prova erronea, tanto più che nel Dialogo viene criticata la giusta intuizione di Keplero e di altri astronomi che fosse l'attrazione lunare la causa del fenomeno delle maree. Quasi a conclusione vengono le parole di Simplicio: «il vostro pensiero parermi bene più ingegnoso di quanti altri io me n'abbia sentiti, ma non però lo stimo verace e concludente: anzi, ritenendo sempre avanti a gli occhi della mente una saldissima dottrina, che già da persona dottissima ed eminentissima appresi ed alla quale è forza quietarsi [...] Iddio con la Sua infinita potenza e sapienza poteva conferire all'elemento dell'acqua il reciproco movimento [...] in molti modi ed anco dall'intelletto nostro inescogitabili [...] soverchia arditezza sarebbe se altri volesse limitare e coartare la divina potenza e sapienza ad una sua fantasia particolare».[59]
Era, questa, l'esposizione dell'«argomento del fine» o «argomento di Urbano VIII», così detto perché da lui portato, ancora cardinale, a Galileo: Dio, «nella sua infinita potenza, può tutto ciò che non implica contraddizione [...] e se Dio poteva e sapeva disporre queste cose altrimenti da come è stato escogitato [...] non dobbiamo vincolare a questo modo la divina potenza e scienza».[60]In questo modo la scienza è concepita non già nel suo valore di spiegazione dei fenomeni in base a un principio assoluto, ma come descrittiva di apparenze sensibili fatte risalire a principi ipotetici, senza pretendere di conseguire l'autentica conoscenza della realtà fisica.
Certamente Galileo non condivise mai una tale posizione, ma si pensò che quelle parole fatte dire da Simplicio intendessero essere una presa in giro del papa: in realtà, Galileo ritenne necessario che, proprio a conclusione del Dialogo, fosse riportata la posizione di Urbano VIII e, dei tre protagonisti, logicamente solo il non-copernicano Simplicio, messo alle strette dai suoi interlocutori, poteva esporla, volendo Galileo - secondo il dettato del decreto del 1616 - smentire o almeno attenuare la sensazione che il sistema copernicano fosse da lui inteso essere l'unico fondamento di ogni corretta interpretazione cosmologica.

Il processo, l’abiura e la condanna [modifica]

Exquisite-kfind.pngPer approfondire, vedi le voci Il processo a Galileo Galilei e s:Sentenza di condanna di Galileo Galilei.
Giovanni Ciampoli
L'opera ricevette molti elogi, tra i quali quelli di Benedetto Castelli, di Fulgenzio Micanzio, collaboratore e biografo di Paolo Sarpi, e di Tommaso Campanella, ma già ad agosto si diffusero le voci di una proibizione del libro: il Maestro del Sacro Palazzo Niccolò Riccardi aveva scritto il 25 luglio all'inquisitore di Firenze Clemente Egidi che per ordine del Papa il libro non doveva più essere diffuso; il 7 agosto gli chiedeva di rintracciare le copie già vendute e di sequestrarle.
Da parte sua, l'ambasciatore fiorentino Francesco Niccolini il 5 settembre riferiva a corte di aver conferito con il Papa che «proruppe in molta collera, e all'improvviso mi disse ch'anche il nostro Galilei aveva ordito d'entrar dove non dovea, e in materie le più gravi e le più pericolose che a questi tempi si potesser suscitare. Io replicai che il S.r Galilei non aveva stampato senza l'approvazione di questi suoi ministri [...] Mi rispose con la medesima escandescenza che egli e ilCiampoli[61] l'avevano aggirata [...] che in queste materie del S.to Uffizio non si faceva altro che censurare, e poi chiamare a disdirsi».
Il 23 settembre l'Inquisizione romana sollecitava quella fiorentina di notificare a Galileo l'ordine di «comparire a Roma entro il mese di ottobre davanti al Commissario generale del Sant'Uffizio». Diversi furono i suoi tentativi di evitare di presentarsi a Roma: il 1º gennaio 1633 il cardinale Antonio Barberini scriveva all'inquisitore fiorentino Clemente Egidi che il Sant'Uffizio non voleva «tolerare queste fintioni, né dissimular la sua venuta qui», minacciando di «pigliarlo et condurlo alle carceri di questo supremo Tribunale, legato anche con ferri».[62] Privo della protezione del Granduca di Toscana, che non intese mettersi in urto con la Chiesa, il 13 febbraio 1633 Galilei giunse a Roma.
L'ambasciatore Niccolini ottenne il permesso di ospitare lo scienziato, in attesa che il processo iniziasse, e venne a sapere dal Papa stesso che Galileo, «se bene si dichiara di voler trattare ipoteticamente del moto della terra, nondimeno, in riferirne gli argumenti, ne parlava e ne discorreva poi assertivamente e concludentemente; e ch'anche aveva contravenuto all'ordine datoli del 1616 dal S.r Card. Bellarmino».[63]
Per la prima volta si viene a conoscenza di un ordine - o precetto - che il Bellarmino avrebbe intimato a Galileo in quell'ormai lontano 1616. Galileo non sembrò preoccupato anzi, come scrisse a Geri Bocchineri il 5 marzo, aveva la convinzione che «le imputazioni andarsi diminuendo, e alcune anco esser del tutto svanite per la troppo evidente loro vanità; il che si può credere che arrechi alleggerimento all'altre che sussistono ancora in piede, onde spero che queste ancora siano per terminarsi nel medesimo modo». L'ambasciatore era di avviso contrario ed esortava Galileo a non commettere l'errore di difendere davanti al Tribunale le sue opinioni copernicane, «a fine di finirla più presto».[64]
Joseph-Nicolas Robert-FleuryIl processo di Galilei
Il processo iniziò il 12 aprile, con il primo interrogatorio di Galileo, al quale il commissario inquisitore, il domenicano Vincenzo Maculano, gli contestò di aver ricevuto, il 26 febbraio 1616, un «precetto»[65] con il quale il cardinale Bellarmino gli avrebbe intimato di abbandonare la teoria copernicana, di non sostenerla in nessun modo e di non insegnarla.
Quel precetto, se mai fu effettivamente mostrato a Galileo nel febbraio del 1616 e se non si tratti persino di un falso costruito ad arte, non reca alcuna firma, né del Bellarmino, né dei testimoni, né di Galileo stesso, il quale negò di averne preso conoscenza, ma di aver soltanto ricevuto a voce dal Bellarmino la notifica della Congregazione secondo la quale l'opinione del moto della Terra «esser ripugnante alle Scritture Sacre e solo ammettersi ex suppositione» ed «ex suppositione si poteva pigliar e servirsen». Nel maggio successivo aveva ricevuto la nota lettera del Bellarmino nella quale «si contiene che la dottrina attribuita al Copernico, che la terra si muova intorno al sole e che il sole stia nel centro del mondo senza muoversi da oriente ad occidente, sia contraria alle Sacre Scritture, e però non si possa difendere né tenere». Nella lettera non si menziona esplicitamente il divieto di insegnare la dottrina copernicana, pur nei limiti di una semplice ipotesi scientifica e, forte di questa indiretta autorizzazione, oltre che di quella esplicita, ma solo verbale, ricevuta in febbraio, egli aveva scritto il suo Dialogo sopra i due massimi sistemi, non a caso ottenendo dall'autorità ecclesiastica il prescritto imprimatur.
L'inquisitore però incalzò, chiedendogli se vi fossero stati testimoni presenti al momento della notifica del «precetto» e Galileo, rispondendo di non ricordare, commise l'errore di menzionare la parola precetto, sostenendo di «non aver in modo alcuno contravenuto a quel precetto». L'inquisitore, verbalizzando, diede per avvenuta l'intimazione del presunto precetto e gli chiese se ricordava in che modo e da chi gli fosse stato intimato e Galileo: «mi raccordo che il precetto fu ch'io non potessi tenere né difendere, e può esser che vi fusse ancora né insegnare».
Per l'inquisitore si trattava ora di stabilire che Galileo, pubblicando il Dialogo, aveva aggirato l'ordine di non trattare l'ipotesi copernicana, ingannando i censori ecclesiastici: alla domanda se avesse mostrato il precetto al Maestro del Sacro Palazzo prima di ottenere l' imprimatur, Galileo non solo ammise di non avere detto «cosa alcuna del sodetto precetto» dal momento che, arrivò a sostenere, «nel detto libro io mostro il contrario di detta opinione del Copernico, e che le ragioni di esso Copernico sono invalide e non concludenti».[66]
Galileo visto da Goya
Con questa evidente menzogna, si concluse il primo interrogatorio: Galileo fu trattenuto, «pur sotto strettissima sorveglianza», in tre stanze del palazzo dell'Inquisizione, «con ampia e libera facoltà di passeggiare».[67]
La Congregazione del Santo Uffizio, riunitasi il 21 aprile, stabilì che nel Dialogo di Galileo «si difenda, e s’insegni l’opinione riprouata, e dannata dalla Chiesa, et però che l’autore si renda sospetto anco di tenerla».[68] Galileo, nuovamente interrogato il 30 aprile, dichiarò di aver riletto in quei giorni il suoDialogo «quasi come scrittura nova e di altro autore», ammettendo che un lettore che non conoscesse intimamente l'autore avrebbe avuto l'impressione che egli avesse voluto avvalorare la teoria copernicana. Scusandosi con l'inquisitore per «un errore tanto alieno dalla mia intentione», si offrì di «ripigliar gli argomenti già recati a favore della detta opinione falsa e dannata, e confutargli in quel più efficace modo che da Dio benedetto mi verrà somministrato».[69]
La piena sottomissione e la cattiva salute dello scienziato gli fecero ottenere il permesso di lasciare il palazzo dell’Inquisizione e di tornare nell’ambasciata fiorentina. Nel costituto del successivo 10 maggio spiegò che la lettera del Bellarmino – dove non era prescritto il divieto di insegnare la dottrina copernicana – gli aveva fatto dimenticare il precetto dove invece quel divieto era intimato, e giustificò i «mancamenti» del suo Dialogo come dovuti unicamente alla «vana ambizione e compiacimento di comparire arguto oltre al comune de’ popolari scrittori, inavertentemente scorsomi dalla penna», dichiarandosi nuovamente pronto a correggere il suo libro.
Per concludere il processo, l’Inquisizione doveva verificare la sincerità dell’affermazione di Galileo di «non tenere la dannata opinione»: a questo scopo, il 16 giugno la Congregazione stabilì che «Galileo fosse interrogato sulla sua intenzione, anche comminandogli la tortura e se l’avesse sostenuta, previa abiurade vehementi di fronte alla Congregazione, fosse condannato al carcere ad arbitrio della Santa Congregazione, con l’ingiunzione di non trattare più, né per scritto né verbalmente, sulla mobilità della Terra e sull’immobilità del Sole».[70]
Il 21 giugno Galileo fu interrogato per l'ultima volta: alla domanda se tenesse ancora, o avesse tenuto in passato, e per quanto tempo, la teoria della centralità del Sole, Galilei rispose che un tempo aveva ritenuto le opinioni di Tolomeo e di Copernico entrambe «disputabili, perché o l'una o l'altra poteva esser vera in natura», ma dopo la proibizione del 1616, sostenne di tenere, da allora e tuttora, «per verissima e indubitata l'opinione di Tolomeo». Richiesto di spiegare perché mai avesse allora difeso l'opinione di Copernico nel suo Dialogo, Galileo rispose di aver voluto soltanto spiegare le ragioni delle due opinioni, convinto che nessuna avesse forza dimostrativa, così che «per procedere con sicurezza si dovessere ricorrere alla determinazione di più sublimi dottrine». All'insistenza dell'inquisitore di dire la verità, altrimenti si sarebbe agito «contro di lui con gli opportuni rimedi di diritto e di fatto», Galileo negò di aver mai sostenuto l'opinione di Copernico: «del resto, son qua nelle loro mani; faccino quello gli piace». All'esplicita minaccia di ricorrere alla tortura, Galileo rispose soltanto: «Io son qua per far l'obedienza, e non ho tenuta questa opinione dopo la determinazione fatta, come ho detto». Il verbale del costituto conclude che, «non potendosi avere niente altro in esecuzione del decreto, avuta la sua sottoscrizione, fu rimandato al suo luogo».[71]
La prigionia di Galileo immaginata da Jean Laurent
Il giorno dopo, 22 giugno, nella sala capitolare del convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, presente e inginocchiato Galileo, fu emessa la sentenza dai cardinali Gaspare BorgiaFelice CentiniGuido BentivoglioDesiderio ScagliaAntonio e Francesco BarberiniLaudivio Zacchia,Berlinghiero GessiFabrizio Verospi e Marzio Ginetti, «inquisitori generali contro l'eretica pravità», nella quale si riassumeva la lunga vicenda del contrasto fra Galileo e la dottrina della Chiesa, iniziata dal 1615 con lo scritto Delle macchie solari e con la lettera al Castelli, alle quali i «qualificatori teologi» avevano opposto:
« che il Sole sia centro del mondo e imobile di moto locale, è proposizione assurda e falsa in filosofia, e formalmente eretica, per essere espressamente contraria alla Sacra Scrittura;
che la Terra non sia centro del mondo né imobile, ma che si muova eziandio di moto diurno, è parimenti proposizione assurda e falsa nella filosofia, e considerata in teologia ad minus erronea in fide »
Nella sentenza si dava poi la versione dell'ammonimento ricevuto nel febbraio 1616: dopo essere stato dal Bellarmino «benignamente avvisato e ammonito, ti fu dal Padre Commissario del Santo Offizio di quel tempo[72] fatto precetto, con notaro e testimoni, che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione, e che per l'avvenire tu non la potessi tenere, né difendere, né insegnare in qualsivoglia modo, né in voce né in scritto: e avendo tu promesso d'obedire, fosti licenziato».
Ricordato che egli scrisse poi il suo Dialogo «senza però significare a quelli che ti diedero simile facoltà, che tu avevi precetto di non tenere, difendere né insegnare in qualsivoglia modo tale dottrina», nella sentenza si sottolinea che il libro insegna la dottrina copernicana; quanto alle personali convinzioni di Galileo, nel processo fu ritenuto «necessario venir contro di te al rigoroso esame, nel quale [...] rispondesti cattolicamente».[73]Essendosi reso pertanto «veementemente sospetto d'eresia», Galileo era incorso nelle censure e pene previste «contro simili delinquenti».
Imposta l'abiura «con cuor sincero e fede non finta» e proibito il Dialogo, Galilei venne condannato al «carcere formale ad arbitrio nostro» e alla «pena salutare» della recita settimanale dei sette salmi penitenziali per tre anni,[74] riservandosi l'Inquisizione di «moderare, mutare o levar in tutto o parte» le pene e le penitenze.[75]

Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze [modifica]

Exquisite-kfind.pngPer approfondire, vedi la voce Due nuove scienze.
Discorsi e dimostrazioni matematiche
Dopo il processo del 1633 Galileo scrisse e pubblicò in Olanda nel 1638 il suo più grande trattato scientifico Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti la mecanica e i moti locali grazie al quale si considera il padre della scienza moderna.
Nella prima giornata, Galileo tratta della resistenza dei materiali: la diversa resistenza deve essere legata alla struttura della particolare materia e Galileo, pur senza pretendere di pervenire a una spiegazione del problema, affronta l'interpretazione atomistica di Democrito, considerandola un'ipotesi capace di rendere conto di fenomeni fisici. In particolare, la possibilità dell'esistenza del vuoto - prevista da Democrito - viene ritenuta una seria ipotesi scientifica e nel vuoto - ossia nell'inesistenza di un qualunque mezzo in grado di opporre resistenza - Galileo sostiene giustamente che tutti i corpi «discenderebbero con eguale velocità», in opposizione con la scienza contemporanea che riteneva l'impossibilità del moto nel vuoto.
Dopo aver trattato della statica e della leva nella seconda giornata, nella terza e nella quarta si occupa della dinamica, stabilendo le leggi del moto uniforme, del moto naturalmente accelerato e del moto uniformemente accelerato e delle vibrazioni del pendolo.
Se la leggenda della frase di Galileo, «E pur si muove», [76] pronunciata appena dopo l'abiura, serve a suggerire la sua intatta convinzione della validità del modello copernicano, la conclusione del processo segnava la sconfitta del suo programma di diffusione della nuova metodologia scientifica, fondata sull’osservazione rigorosa dei fatti e sulla loro verifica sperimentale – contro la vecchia scienza che produce «esperienze come fatte e rispondenti al suo bisogno senza averle mai né fatte né osservate»[77] – e contro i pregiudizi del senso comune, che spesso induce a ritenere reale qualunque apparenza: un programma di rinnovamento scientifico, che insegnava «a non aver più fiducia nell’autorità, nella tradizione e nel senso comune», che voleva «insegnare a pensare».[78]

Gli ultimi anni [modifica]

La sentenza di condanna prevedeva un periodo di carcere a discrezione del Sant'Uffizio e l'obbligo di recitare per tre anni, una volta alla settimana, i salmi penitenziali. Il rigore letterale fu mitigato nei fatti: la prigionia consistette nel soggiorno coatto per cinque mesi presso la residenza romana del Granduca di ToscanaFrancesco Niccolini, a Trinità dei Monti e di qui, nella casa dell'arcivescovo Ascanio Piccolomini a Siena, su richiesta di questi. Quanto ai salmi penitenziali, Galileo incaricò di recitarli, con il consenso della Chiesa, la figlia Maria Celeste[79]. A Siena il Piccolomini favorì Galileo permettendogli di incontrare personalità della città e di dibattere questioni scientifiche. A seguito di una lettera anonima che denunciò l'operato dell'arcivescovo e dello stesso Galileo,[80] il Sant'Uffizio provvide, accogliendo una stessa richiesta avanzata in precedenza da Galilei, a confinarlo nell'isolata villa («Il Gioiello») che lo scienziato possedeva nella campagna di Arcetri[81]. Nell'ordine del 1º dicembre 1633 si intimava a Galileo di «stare da solo, di non chiamare né di ricevere alcuno, per il tempo ad arbitrio di Sua Santità».[82] Solo i familiari potevano fargli visita, dietro preventiva autorizzazione: anche per questo motivo gli fu particolarmente dolorosa la perdita della figlia suor Maria Celeste, l'unica con cui avesse mantenuto legami, avvenuta il 2 aprile 1634.
Poté tuttavia mantenere corrispondenza con amici ed estimatori, anche fuori d'Italia: ad Elia Diodati, a Parigi, scrisse il 7 marzo 1634, consolandosi delle sue sventure che «l'invidia e la malignità mi hanno machinato contro» con la considerazione che «l'infamia ricade sopra i traditori e i costituiti nel più sublime grado dell'ignoranza». Dal Diodati seppe della traduzione in latino che Matthias Bernegger andava facendo a Strasburgo del suo Dialogo, che uscì l'anno dopo in Olanda, e gli riferì di «un tal Antonio Rocco [...] purissimo peripatetico, e remotissimo dall'intender nulla né di matematica né d'astronomia» che scriveva a Venezia «mordacità e contumelie» contro di lui.
Questa, e altre lettere, dimostrano quanto poco Galileo avesse rinnegato le proprie convinzioni copernicane, ma ora egli era impegnato alla stesura di una nuova opera, che sarà anche l'ultima e la sua migliore, pubblicata a Leida, in Olanda,[83] i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze. È ancora un dialogo che si svolge fra i tre medesimi protagonisti del precedente Dialogo dei massimi sistemi - Sagredo, Salviati e Simplicio - ancora in quattro giornate.
È del 1640 l'apporto decisivo di Galilei che incoraggiò il suo allievo Bonaventura Cavalieri a sviluppare le idee del maestro e di altri sugli indivisibili incorporandole in un metodo geometrico (metodo degli indivisibili), per determinare aree e volumi: questo metodo rappresentò una tappa fondamentale per la futura elaborazione del calcolo infinitesimale.
Con la cecità e l'aggravarsi delle condizioni di salute, nel 1639 fu permessa a Galilei l'assistenza del giovane allievo Vincenzo Viviani e, dall'ottobre 1641, anche di Evangelista Torricelli.

Un'affettuosa corrispondenza [modifica]

Gli ultimi anni di Galilei sono segnati da un'affettuosa corrispondenza con Alessandra Bocchineri, sorella di Sestilia, la moglie del figlio Vincenzio.
Quando Galilei, ormai sessantaseienne, conosce Alessandra, questa è una bella donna di 33 anni che si è affinata ed ha coltivato la sua intelligenza nella vita di corte della duchessa Eleonora Gonzaga di Mantova.
La giovane intellettuale viene fatta conoscere a Galilei dal figlio Vincenzio che si vantava della bella e intelligente cognata frequentatrice ammirata delle corti europee.[84]
Alessandra il 28 luglio del 1630 invita alla villa di "S.Gaudenzio", sulle colline di Sofignano, Galilei ospite di suo marito Giovanni Francesco Buonamici, il buon amico che manda a Galilei il vino della loro "Vigna delle Veneri", particolarmente apprezzato dallo scienziato.[85]
« Son rimasta così appagata della gentilissima conversazione di V. S. e tanto affezionata alle sue qualità e meriti che non saprei tralasciare di quando in quando di salutarla e pregarla che si compiaccia farmi sapere nuove della sua salute, e conservare insieme memoria del desiderio ch'io tengo d’essere onorata di alcun suo comandamento. E se non fusse che V. S. tiene qua persone che credo per l'affetto che V. S. porta loro la costringeranno a venire a favorire queste nostre parti, avrei preso ardire di supplicare V.S. che volesse consolarci colla sua presenza ne' prossimi giorni del principio di agosto: ma perché mi prometto di goderla in ogni modo mi riserbo ad altra occasione a implorare questa grazia, che sarà anco comune al signor Cavaliere mio marito che aspetto ad ogni punto torni di Val di Bisenzio e in nome suo saluto V. S.E, e di tutto core le bacio le mani e resto schiava alle sue virtù.[86] »
Galilei le risponde con una lunga lettera dell'8 agosto 1630 dove si giustifica per non averle risposto in tempo non per sua colpa ma per il ritardo con cui la di lei lettera gli è stata recapitata:
« Molto Ill.re Sig.ra Col.ma. Non saprei attribuire ad altro che alla mia mala ventura, che sempre mi traversa le cose più desiderate, un tanto dispendio di tempo quanto si è interposto tra la data della sua cortesissima lettera e 'l ricapito, in distanza non maggiore di 10 miglia; quella fu li 28 di Luglio, e questo li 7 d'Agosto, intervallo di 11 giorni e 11 notti: e quello che più mi travaglia è la contumacia nella quale sarò, per tutto questo tempo, incorso nell'animo di V. S., la quale, sapendo di havermi scritto, dal non veder risposta mi haverà sentenziato per un solenne villano; dove che io, non sapendo, né anca sperando o pretendendo, un tanto favore, non ho sentito in quei giorni altra afflizzione che quella della sua assenza: ma giuro bene a V. S. che 'l gusto repentino et inaspettato ha più che ricompensata la proroga degl' 11 giorni. Voglia Dio che 'l ritorno della mia risposta non sia altrettanto lento, onde il sinistro concetto della mia scortesia faccia tal presa nell' animo di V. S., che malagevolmente possa eradicarsi. Quando intesi in Roma l'eroica resoluzione intrapresa et effettuata da lei [87] formai tal, concetto del suo valore, che nulla più desideravo che di vederla; e credami che' questa fu una delle cause primarie che affrettò il mio ritorno, il quale forse harei prolungato qualche mese di più: ma perché oltre a una semplice vista havevo aggiunta la speranza di poter gustar della sua conversazione, stimando che ella fusse per stanziare in Firenze, giudichi hora V. S. quale io mi ritrovi, defraudato di un tale assegnamento, mentre veggo di presente la sua assenza e temo la continuazione, per quanto ritraggo dalle parole che va raccogliendo da i suoi intrinseci. Ecco 'l giudizio human come spesso erra. Assai men grave era la sua lontananza di 500 miglia, mentre io non l'haveva di presenza conosciuta, che questa di 10, dopo l' haverla veduta e sentita. Questo che dico di V. S., ha 'l medesimo riguardo al S. suo consorte [88], esso ancora tornato in queste parti più desiderato che aspettato, al quale un eccesso di cortesia e di affezzione, evidentemente mostratami, mi haveva caldamente obbligato, sì come perpetuamente mi terrà; dalla conversazione del quale mi promettevo utile e diletto particolare. Hora non mi resta altra consolazione che quella che sentirò in servire amendue, mentre io venga honorato de i loro comandamenti, de i quali gli supplico con efficacia pari alla prontezza che troveranno in me in esequirgli; la quale conosceranno infinita, se bene in forze molto debili. Favoriscami di baciar le mani in mio nome al molto I. S. Ca.r suo consorte, al molto R. S. Can.co suo fratello, alla S.ra sua madre, et a tutti di casa sua; et il S. gli conceda il colmo di felicità. Da Bellosguardo, li 8 di Agosto 1630. Di V. S. molto I. »
Non vi sono tracce di una successiva corrispondenza tra i due sino ad una lettera di Galilei del 24 maggio 1640 dove elogia, pur essendo donna, l' intelligenza di Alessandra: «sì rare si trovano donne che tanto sensatamente discorrino come ella fa.» [89]
Negli anni seguenti Alessandra rispondendo ad una lettera di Galilei del 27 marzo 1641 gli assicura che vorrebbe accettare i suoi inviti ma è costretta a respingerli per timore di dare scandalo mentre gli rinnova il suo desiderio di vederlo:
« Io delle volte tra me medesima vo stipolando in che maniera io potrei fare a trovare la strada innanzi che io morissi a boccarmi con Vostra Signoria e stare un giorno in sua conversazione, senza dare scandalo o gelosia a quelle persone che ci hanno divertito da questa volontà. Se io pensassi che V. S. si trovassi cho buona sanità, e che non gli dessi fastidio il viagiare in caroza, io vorrei mandare le mie cavalle e trovare un carozino acciò V.S. mi favorisi di venire a stare dua giorni da noi, adesso che siamo ne' buoni tenpi. Però la supprico a volermi favorire e darmi risposta, perché io subito manderò per lei, e potrà venire adagio adagio, e non credo che lei patissi...
[90] »
L'ormai anziano scienziato nel rimpiangere di non poter accettare un ulteriore invito di Alessandra a visitarla a Prato le risponde di non poterla raggiungere «non solo per le molte indisposizioni che mi tengono oppresso in questa mia gravissima età, ma perché son ritenuto ancora in carcere, per quelle cause che benissimo son note» ma la invita a sua volta a venire ad Arcetri non curandosi di eventuali maligne conseguenze:
« Né mi opponga rispetto alcuno o sospetto o timore che mi possa per ciò sopraggiungere qualche turbolenza: perché in qualunque senso sia da terze persone ricevuto questo incontro o abboccamento, o sia giocondo o sia discaro, poco m’importa, essendo io assuefatto a soffrire e sostenere come leggerissimi pesi cariche molto più gravi.[91] »
Ella potrebbe consolarlo in questi ultimi giorni prima della morte, giorni «lunghissimi per il continuo ozio e brevissimi per la relazione ai mesi e agli anni decorsi, né altro mi resta di consolazione che la memoria delle amicizie passate, delle quali poche cose mi restano.» [92]
Le scriverà nuovamente Galilei, rispondendo ad una lettera di Alessandra andata perduta, rinnovandole il suo affetto:
« Molt' Ill.re Sig.ra mia Oss.ma Ho ricevuto la gratissima lettera di V. S; molto Ill.re in tempo che mi è stata di molta consolatione, havendomi trovato in letto gravemente indisposto da molte settimane in qua. Rendo cordialisssime gratie a V. S. dell' affetto tanto cortese ch'ella dimostra verso la mia persona, e dell' ufficio di condoglienza col quale ella mi visita nelle mie miserie e disgratie.
Per adesso non mi occorre di prevalermi di tela: resto bene con accresciute obbligationi alla gentilezza di V. S., la quale si compiace d'invigilare a gl'interessi miei. La prego a condonare questa mia non volontaria brevità alla gravezza del male; e le bacio con affetto cordialissimo le mani, come fo anco al S.r. Cav.re suo consorte. D'Arcetri, 20 Xbre 1641.[93] »
Questa lettera del 20 dicembre del 1641 di "non volontaria brevità" è il preannuncio della morte di Galilei che sopraggiungerà 15 giorni dopo nella notte dell'8 gennaio 1642 ad Arcetri, assistito da Viviani e Torricelli.

Dopo la morte [modifica]

Tomba di Galileo a Santa Croce
Luogo di sepoltura, Basilica di Santa Croce,Firenze
Galilei venne tumulato nella Basilica di Santa Croce a Firenze insieme agli altri grandi fiorentini come Machiavelli e Michelangelo ma non fu possibile innalzargli l'«augusto e suntuoso deposito» desiderato dai discepoli, perché il 25 gennaio il nipote di Urbano VIII, il cardinale Francesco Barberini, scrisse all'inquisitore di Firenze Giovanni Muzzarelli di «far passare all'orecchie del Gran Duca che non è bene frabricare mausolei al cadavero di colui che è stato penitentiato nel Tribunale della Santa Inquisitione, ed è morto mentre durava la penitenza [...] nell'epitaffio o iscrittione che si porrà nel sepolcro, non si leggano parole tali che possano offendere la reputatione di questo Tribunale. La medesima avvertenza dovrà pur ella avere con chi reciterà l'oratione funebre [...]».
La Chiesa mantenne la sorveglianza anche nei confronti degli allievi di Galileo: quando questi diedero vita all' Accademia del Cimento, essa intervenne presso il Granduca e l'Accademia fu sciolta nel 1667.[94]
Soltanto nel 1737, Galileo Galilei fu onorato con un monumento funebre in Santa Croce.[95]
« L'erezione del monumento funebre era stata voluta da [Vincenzo} Viviani, che ne aveva imposto la realizzazione ai propri eredi con testamento del 1689: l'esecuzione dell'opera doveva essere originariamente compiuta su progetto di Giovan Battista [Foggini] con la direzione dell'architetto G.B. Nelli; tuttavia, alla morte del Viviani, avvenuta il 22 sett. 1703, seguirono numerosi eventi che non consentirono l'adempimento delle sue volontà testamentarie ... si ebbe finalmente la costruzione della tomba nel 1737; il progetto fu curato da Giulio [Foggini], che riprese una precedente idea del padre ma su scala minore - anche a causa di difficoltà economiche sopraggiunte - e vi parteciparono il fratello Vincenzo e G. Ticciati, autori rispettivamente della Allegoria dell'Astronomia e di quella della Geometria. Il busto di Galilei era invece stato realizzato precedentemente da Giovan Battista.[96] »

Galilei e la scienza [modifica]

La fondamentale importanza che la figura di Galileo riveste riguarda il suo ruolo nel recupero del metodo scientifico sviluppato in epoca ellenistica e successivamente quasi dimenticato, grazie al suo attento studio di alcune opere scientifiche, in particolare quelle di Archimede.
La sua importanza per la rinascita della scienza in generale e della fisica in particolare è riferibile alle scoperte che fece per mezzo di esperimenti, quali, ad esempio, il principio di relatività, la scoperta delle quattro lune principali di Giove, dette appunto satelliti galileiani (IoEuropaGanimede e Callisto), il principio di inerzia e che la velocità di caduta dei gravi è la stessa per tutti i corpi, indipendentemente dalla massa o dal materiale (un'idea, quest'ultima, che in realtà risaliva a Giovanni Filopono, ma che era stata apparentemente dimenticata).
Galileo si interessò inoltre del problema della misura della velocità della luce: egli intuì infatti che questa non poteva essere infinita, ma i suoi tentativi per misurarla furono infruttuosi.
Riflettendo sui moti lungo i piani inclinati scoprì il problema del tempo minimo nella caduta dei corpi materiali, e studiò varie traiettorie, tra cui la spirale paraboloide e la cicloide.
Nell'ambito delle sue ricerche di matematica scoprì la prima proprietà dell'infinito: una parte è uguale al tutto.
Inoltre indusse un suo allievo, Bonaventura Cavalieri, a studiare gli indivisibili, intuendo le conseguenze del calcolo infinitesimale nello studio del moto.

Il rifiuto dell'essenzialismo [modifica]

Premessa alla comprensione del metodo galileiano può essere considerata la critica dell'essenzialismo che Galilei traccia nel 1613 nelle sue Lettere al Welser.[97]
Che cosa, si domanda Galilei, l'uomo nelle sua ricerca vuole arrivare a conoscere? «O noi vogliamo specolando tentar di penetrar l’essenza vera ed intrinseca delle sustanze naturali; o noi vogliamo contentarci di venir in notizia d’alcune loro affezioni» [98]. Per conoscenza intendiamo arrivare a cogliere i principi primi dei fenomeni o come questi si sviluppano? Risponde Galilei:
« Il tentar l’essenza, l’ho per impresa non meno impossibile e per fatica non men vana nelle prossime sustanze elementari che nelle remotissime e celesti: e a me pare essere egualmente ignaro della sustanza della Terra che della Luna, delle nubi elementari che delle macchie del Sole; né veggo che nell’intender queste sostanze vicine aviamo altro vantaggio che la copia de’ particolari, ma tutti egualmente ignoti, per i quali andiamo vagando, trapassando con pochissimo o niuno acquisto dall’uno all’altro.[99] »
La ricerca dei principi primi essenziali comporta dunque una serie infinita di domande poiché ogni risposta fa nascere una nuova domanda: se noi ci chiedessimo quale sia la sostanza delle nuvole, una prima risposta sarebbe che è il vapore acqueo ma poi dovremo chiederci che cos'è questo fenomeno e dovremo rispondere che è acqua, per chiederci subito dopo che cos'è l'acqua, rispondendo che è quel fluido che scorre nei fiumi ma questa «notizia dell’acqua» è soltanto «più vicina e dependente da più sensi», più ricca di informazioni particolari diverse, ma non ci porta certo la conoscenza della sostanza delle nuvole, della quale sappiamo esattamente quanto prima. Ma se invece vogliamo capire le «affezioni», le caratteristiche particolari dei corpi, potremo conoscerle sia in quei corpi che sono da noi distanti, come le nuvole, sia in quelli più vicini, come l'acqua.[100]
Occorre dunque intendere in modo diverso lo studio della natura. «Alcuni severi difensori di ogni minuzia peripatetica», educati nel culto di Aristotele, credono che «il filosofare non sia né possa esser altro che un far gran pratica sopra i testi di Aristotele» che portano come unica prova delle loro teorie. E non volendo «mai sollevar gli occhi da quelle carte» rifiutano di leggere «questo gran libro del mondo» (cioè dall’osservare direttamente i fenomeni), come se «fosse scritto dalla natura per non esser letto da altri che da Aristotele, e che gli occhi suoi avessero a vedere per tutta la sua posterità» [101].

La "lingua" matematica [modifica]

Sulla questione della matematica come strumento di indagine della natura, scrisse:
« ... questo grandissimo libro [della natura] che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l'universo), non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri né quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intendere umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. »
(Galileo Galilei, Opere VI)
Per Galileo la matematica è quindi il supremo strumento nell'indagine della natura. A tal proposito egli distinse fra qualità primarie dei corpi, oggetto appunto dell'indagine scientifica in quanto ad essi è applicabile il calcolo matematico, e qualità secondarie (ad esempio odori, sapori, giudizi di gusto etc.), che invece non possono essere studiate in modo scientifico.

Il metodo scientifico [modifica]

Il metodo galileiano si compone di due aspetti principali:
  • sensata esperienza, ovvero l'esperimento, che può essere compiuto praticamente o solo astrattamente ("esperienze mentali"), ma che deve in ogni caso seguire a una attenta formulazione teorica, ovvero a ipotesi che siano in grado di guidare l'esperienza in modo che essa non fornisca risultati arbitrari;
  • necessaria dimostrazione, ovvero una analisi matematica e rigorosa dei risultati dell'esperienza, che sia in grado di trarre da questa ogni conseguenza in modo necessario e non opinabile, e che va ulteriormente verificata, con ulteriori esperienze, ovvero il cosiddetto cimento, che è l'esperimento concreto con cui va sempre verificato l'esito di ogni formulazione teorica.WIKIPEDIA.IT

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