venerdì 12 aprile 2013

SPECIALE HCS:LA COLONIA PIU' ANTICA DELLA MAGNA GRECIA:CUMA


 Cuma greca ebbe più o meno tre secoli di vita: fondata dai Calcidesi nel 730 a.C. circa, fu presa dai Sanniti nel 421 a.C. (sui rapporti fra Pithecussai e Cuma, cfr. il capitolo introduttivo dedicato ai Greci in Campania).
Al momento dell'arrivo dei Greci l'aspetto del litorale cumano era assai diverso da quello attuale: la collina dell'acropoli, infatti, oggi arretrata rispetto alla linea di costa, doveva allora formare un largo promontorio lambito da ogni parte dal mare. Era stata frequentata nell'Età del Ferro e probabilmente fin dal periodo del Bronzo finale (XI-X sec. a.C.).
 

Le prime ricerche nel territorio ebbero luogo nel corso del Seicento in seguito alla ripresa delle coltivazioni nella zona, da tempo malarica; da allora, furono raccolte iscrizioni e statue fra le quali occorre ricordare il famoso busto di Giove (il Gigante di Palazzo), in un primo momento sistemato a Napoli vicino al Palazzo Reale e oggi al Museo Nazionale. I primi scavi regolari furono condotti dal 1853 al 1857 dal Conte di Siracusa, fratello di Ferdinando II. Dopo l'unità d'Italia continuò il sistema di scavi affidati a privati con la concessione data all'inglese Stevens che portò alla luce una parte delle necropoli, a lungo, peraltro, saccheggiate da clandestini. L'esplorazione dell'acropoli fu oggetto di ricerche parziali iniziate prima della I guerra mondiale e continuate fra le due guerre da Gabrici, Spinazzola e Maiuri; dopo l'ultima guerra, gli scavi si sono concentrati nella città bassa, dove sono stati esplorati alcuni edifici della città ellenistica e romana. 
Per Cuma arcaica, lo storico dispone di alcuni dati forniti sia dalle fonti scritte che dal materiale delle necropoli. Lo studio recente di sepolture rinvenute all'inizio del secolo ha permesso di ricostruire, se non un quadro completo, almeno alcuni aspetti della società e dell'economia cumana: alla fine dell'VIII sec. a.C. e all'inizio del VII, vi era una classe aristocratica che conservava le tradizioni funerarie della metropoli (incinerazione e deposizione delle ceneri in un vaso di bronzo), ma con corredi molto più ricchi; questi ultimi erano anche più ricchi di quelli delle necropoli contemporanee, in verità mal conosciute, delle colonie calcidesi di Sicilia. La particolare prosperità di Cuma in quest'epoca è stata attribuita, oltre che allo sfruttamento del territorio (allevamento di cavalli, colture di cereali e vigneti) e alla lavorazione dei metalli, soprattutto agli scambi marittimi favoriti da una posizione geografica eccezionale.
Dopo la decadenza e la fine dell'emporio di Pithecussai, l'isolamento di Cuma, a fronte della densità delle poleis calcidesi di Sicilia, colpisce ancora di più. Tuttavia, non dobbiamo trasferire nel passato quella situazione di conflitto con il mondo etrusco che vedremo poi, e immaginare l'avamposto ellenico pericolosamente solo in un ambiente ostile. Ricordiamo che la presenza etrusca o protoetrusca nella zona era anteriore alla fondazione di Cuma e che i Greci avevano scelto di ubicare il loro insediamento in tale contesto: il loro interlocutore naturale era dunque etrusco.
Nel corso del VI sec. a.C., alcuni avvenimenti modificarono profondamente la fisionomia del medio Tirreno: all'inizio del secolo, i Sibariti avevano fondato Poseidonia (la romana Paestum); nel basso Tirreno erano intanto nate le <<sottocolonie volute dalle colonie sullo Ionio. Verso la metà del secolo, un gruppo di Focei, che aveva dovuto lasciare la patria (Focea, in Asia minore) dopo l'attacco persiano (545 a.C.), si recò in Corsica, ad Alalia (oggi Aleria), dove, vent'anni prima, alcuni compatrioti avevano fondato una città (va ricordato che, negli anni 600 a.C., gli stessi Focei avevano fondato Marsiglia). La loro attiva presenza nel Tirreno provocò una violenta reazione degli Etruschi e dei Cartaginesi, che li accusarono di atti di pirateria. Vi fu allora un'aspra battaglia navale nelle acque di Alalia, e solo venti delle sessanta navi focee scamparono alla distruzione; i prigionieri degli Etruschi furono lapidati a morte sotto le mura di Agylla (Cerveteri); i superstiti, con l'aiuto dei Reggini fondarono Elea (Velia).
Tali avvenimenti non vanno interpretati come prova di una sistematica ostilità degli Etruschi verso l'elemento greco in genere. Infatti i contatti fra le due culture sono sempre più evidenti: a Capua era cominciato verso il 600 I'uso delle tegole da tetto; allora appaiono case con basamento in pietrame orientate secondo gli assi stradali; in Campania i santuari presentano ormai una decorazione di terracotta di tipo greco ad esempio, il tempio dorico di Pompei, di poco posteriore alla fondazione della città, è di tipo greco. E l'analisi delle importazioni greche che sono identiche a Cuma e nella parte <<etrusca>> della Campania (Capua, Nola, Suessula, Pompei, Vico Equense, ecc.) porta alle stesse conclusioni: fra le due culture i contatti sono profondi, e l'influenza di Cuma appare preponderante.
Tuttavia, a questo punto, due livelli di contatti vanno distinti: dal punto di vista strettamente culturale, l'irradiazione dei culti di Cuma (Apollo, Hera, Demetra, Dioniso, ecc.), la diffusione dell'alfabeto e il suo ruolo nella distribuzione di oggetti di manifattura greca attestano un processo di influenza che si estende ben al di là del suo territorio (pensiamo ai rapporti <<culturali>> fra Cuma e Roma). D'altra parte vi sono precisi contatti territoriali: Cuma cercò presto di consolidare la sua presenza nel Golfo di Napoli con punti di appoggio lungo la costa. Ed è così che nacquero un porto a Miseno, un insediamento nella zona in cui sorgerà più tardi Puteoli, un altro sulla punta di Pizzofalcone e sull'isolotto di Megaride (ove l'attuale Castel dell'Ovo) e uno a Capri.
Il rinvenimento a Napoli, sulla collina di Pizzofalcone, di una necropoli greca con sepolture databili fra il VII sec. a.C. e la metà del VI, cioè al momento della piena fioritura di Cuma, conferma l'esistenza di un insediamento che prese il nome di Parthenope, dal nome di una sirena che vi sarebbe stata sepolta. Accanto a problemi aperti e periodicamente discussi (esistenza di una prima Partenope rodia, distruzione della Partenope cumana, ecc.), la presenza di questo primo insediamento dimostra la volontà di Cuma di consolidare il controllo del golfo. Allo stesso modo, è senza dubbio per contrapporsi all'espansione etrusca che, nel 531 a.C., i Cumani concessero a un gruppo di Samii, fuggiaschi dalla patria ormai sottomessa alla tirannide di Policrate, l'autorizzazione a insediarsi nel loro territorio, sul sito dell'attuale Pozzuoli: così nacque Dicearchia, la <<città della giustizia>>, ovviamente con l'assenso dei coloni Calcidesi, egemoni del Golfo.
Ciononostante, il declino di Partenope dopo la metà del VI sec. a.C. coincise con una recrudescenza della pressione etrusca nel Tirreno centrale: nel 524 a.C., gli Etruschi passarono all'offensiva assalendo la stessa Cuma. Vi fu uno scontro nei terreni paludosi che circondavano la città: gli Etruschi furono battuti e Cuma si sentì abbastanza forte per mandare, nel 505 a.C., un contingente ad Aricia in aiuto alla coalizione latina in lotta contro gli Etruschi. Come è stato sottolineato giustamente da M. Pallottino, questa spedizione <<dimostra una svolta nella politica di Cuma; mentre la guerra del 524 era nettamente difensiva (...), la spedizione di Aricia mostra una aggressività di Cuma verso il cuore della sfera di influenza etrusca.>>.
E' questo un periodo assai complesso: attraverso alcune fonti antiche, soprattutto Dionigi d'Alicarnasso, abbiamo una <<cronaca cumana>> abbastanza precisa per gli avvenimenti della fine del VI e del V sec. a.C.: a partire dalla battaglia del 524 a.C. si era imposta la figura di un curioso personaggio, Aristodemo, che svolgerà un ruolo determinante per più di un quarto di secolo; la sua ascesa cominciò infatti con la vittoria sugli Etruschi, per la quale, si diceva, aveva goduto anche della protezione divina per sé e i suoi cavalieri. Ma, quasi subito dopo, l'aristocrazia che lo affiancava (i cavalieri) si era divisa, e della crisi aveva approfittato il demos; perciò, nella guerra del 505, Aristodemo avrà con sé gli elementi popolari; al ritorno, divenuto tiranno, prenderà misure filodemocratiche. Uno studio recente di N. Valenza Mele ha mostrato in maniera convincente come una attenta analisi delle sepolture dell'epoca confermi l'ascesa del demos voluta dal tiranno. Vi sarebbe stato allora un periodo di <<filoetruschismo>>, che spiegherebbe perché Tarquinio il Superbo si sarebbe rifugiato presso di lui dopo la battaglia del lago Regillo. In questo momento si manifestò inoltre una volontà di espansione territoriale e agricola, con opere di canalizzazione e di drenaggio nelle zone paludose, particolarmente a nord della città. Poco dopo l'inizio del V sec., tuttavia, il tiranno fu deposto e ucciso con tutta la sua famiglia.
Appare ormai sempre più chiaramente una diminuzione irreversibile della vitalità di Cuma: per difendersi contro la presenza minacciosa degli Etruschi, la vecchia città deve rivolgersi a Siracusa, che è ormai la grande metropoli dell'Occidente greco. Pindaro canterà la vittoria di Ierone nelle acque di Cuma (474 a.C.), <<onde si tacque il grido di guerra dei Tirreni domati dai Siracusani, che dall'alto delle loro navi ne gettarono in mare la migliore gioventù ... sottraendo la Grecia a duro servaggio>>. Siracusa controllava ormai il Golfo di Napoli e, dopo aver insediato un proprio presidio a Pithecussai, prese l'iniziativa della fondazione di Neapolis, la <<città nuova>> affiancata all'antica Parthenope, come la Neapolis creata da Gelone in Siracusa a ridosso della vecchia Ortigia. L'influenza di Siracusa è evidente sia nella pianta che nei culti e nella monetazione della Neapolis campana. Questa soppianterà presto Cuma: dopo la caduta dei Deinomenidi a Siracusa (466 a.C.), Pithecussai è occupata dai Neapolitani; il Golfo subisce allora, come tutto l'Occidente greco, I'influenza preponderante di Atene.
E' anche l'epoca in cui comincia la discesa dalle montagne del Sannio di popolazioni di stirpe sabellica, gli Oschi, che presto premeranno sulle città greche della costa. Si impadroniscono di Cuma (421 a.C.), poi di Dicearchia, e fanno subire a Neapolis un pesante dominio politico. Diventa così inevitabile il loro scontro con Roma: con quest'ultima si schiera Cuma, che riceve la civitas sine suffragio, cioè la cittadinanza senza diritto di voto. Dopo una lunga resistenza a Napoli del partito filosannitico, la zona napoletano-flegrea, dall'inizio del III sec. a.C., si troverà, come tutto il resto della Campania, nelle mani dei Romani. Secondo Diodoro Siculo (XII 76), Cuma aveva avuto a soffrire più di ogni altra città dell'invasione sannitica; sembra però che già nella prima metà del V sec. a.C. essa avesse ripreso, per un certo tempo, la sua funzione di scalo marittimo accanto alla produzione di ceramica (secondo il Trendall, i principali ateliers di ceramica campana a figure rosse sarebbero stati a Cuma, a Capua e ad Avella), ma subisse sempre di più la concorrenza di Neapolis.
Infatti, dopo la metà del III sec., la produzione di ceramica sembra concentrarsi a Napoli che, alla conclusione della guerra sannitica, era uscita dal conflitto come alleata di Roma, con una relativa autonomia; verso la fine del secolo, la cosiddetta Campana A, di cui J.P. Morel ha studiato i tipi e la diffusione, rimane di produzione esclusivamente napoletana Secondo Morel, l'<<esplosione della A>> non sarebbe da mettere in rapporto con la fine della seconda guerra punica, ma <<sarebbe legata alla nascita e allo sviluppo di Puteoli>> (fondata nel 194 a.C.) e rappresenterebbe una <<specie di simbiosi fra l'economia napoletana e quella romana (puteolana nel caso particolare), fra il dinamismo dei negozianti delle due città del Golfo>>.

   
E' chiaro che, per i secoli posteriori alla conquista sannitica, Cuma non avrà mai più l'importanza che aveva avuto durante il periodo greco, anche se non va esagerata l'immagine di una città rapidamente decaduta e se si deve tener presente che, nel corso della sua storia successiva, vi furono momenti di indiscutibile ripresa. Ma, paradossalmente, questa Cuma, quella sannitica e soprattutto romana, è meglio conosciuta, dal punto di vista archeologico, della Cuma greca. Dall'epoca sannitica fino alla tarda età imperiale, lo sviluppo urbano si estende verso la zona bassa. Ad esempio, per il periodo sannitico sull'acropoli si procede solo a una risistemazione dei templi e a un rafforzamento delle strutture difensive - è vero che si tratta di lavori importanti - mentre, nella città bassa, sono edificati diversi edifici, in particolare il tempio che diventerà più tardi il Capitolium.
Per l'età romana si notano anche, durante il periodo repubblicano, lavori di sistemazione dei monumenti e delle fortificazioni dell'acropoli mentre, nella città bassa, si organizza un nuovo abitato con case e strade regolari. Ma è importante sottolineare che, mentre per l'epoca greca, Cuma è l'elemento dinamico e decisionale dell'insieme della vita del Golfo, ormai le <<novità>> a Cuma, in particolare nel campo dell'architettura e dell'urbanistica, appaiono come un riflesso o una conseguenza di misure territoriali prese in rapporto con il resto dell'area flegrea. Ai primi anni dell'età imperiale va datata la Crypta Romana, che metteva in comunicazione la città bassa con il porto, in prosecuzione con la <<Grotta di Cocceio>>, che univa la zona del Portus Iulius a Cuma; l'opera è parte del grande progetto di potenziamento strategico dei porti flegrei affidati da Agrippa all'architetto Cocceio. Il foro di Cuma si trovava così inserito in un sistema di comunicazioni che andava oltre l'ambito urbano, mentre l'acropoli ne era praticamente tagliata fuori. Tuttavia, nello stesso tempo, quest'ultima ritrova la sua funzione sacra: è noto quanto Cuma fosse devota alla famiglia di Augusto; vi fu allora, probabilmente, la volontà imperiale di ridare un prestigio sacro alla vecchia cittadella connessa alla leggenda di Enea e al culto di Apollo.
Nei primi secoli dell'impero la città bassa subisce notevoli trasformazioni, con la monumentalizzazione del foro e lo sviluppo indotto dalla costruzione della via Domitiana.
Solo in età tardo-imperiale, quando si riproporranno di nuovo problemi di sicurezza, l'acropoli ritroverà la sua funzione difensiva; tutta la zona bassa sarà progressivamente abbandonata; lì, nell'alto medioevo, vi sono alcune abitazioni rurali isolate (i tesoretti monetali, rinvenuti nella zona delle Terme del Foro, sono espressione dell'insicurezza di quei tempi), mentre sull'acropoli sembra vi fosse un borgo fortificato (non ancora preso in considerazione dalla ricerca archeologica), con le sue modeste case e le chiese risultate dalla trasformazione dei vecchi templi.
Cuma ebbe in periodo greco e romano un porto sito nelle immediate vicinanze dell'acropoli, ma la sua preaisa collocazione e configurazione sono a tutt'oggi sconosciute.
Tenendo conto che anticamente il promontorio di Cuma si protendeva profondamente in mare (dove oggi invece c'è la spiaggia), si è pensato che il porto greco fosse nella piccola insenatura (B) a sud del promontorio indicato con A nella piantina. Questa tesi potrebbe essere suffragata dal fatto che nelle vicinanze sono state rinvenute notevoli concentrazioni di ceramica greca. Dionisio di Alicarnasso (VII, 7, 1), ricordando il ritorno di Aristodemo dopo la vittoria di Aricia sugli Etruschi del 505 a.C., dice che <<entrò con le navi nei porti di Cuma>>. Ciò potrebbe far supporre che Cuma disponesse di più di un porto: uno, ad esempio, poteva essere nel lago ora prosciugato di Licola.
E' certo che con la conquista sannita del 421 a.C. comincia un lento ma continuo declino delle attività marinare di Cuma. Agrippa, contemporaneamente al Portus Iulius (37 a.C.), dovette probabilmente creare ex novo il porto di Cuma installandolo nella rientranza lunga circa m. 500 a S-SO dell'acropoli. Per evitarne l'insabbiamento lo collegò al vicino Lago Fusaro mediante un canale (C), alla fine del quale venne installata una chiusa mobile (D) azionata per il periodico desabbiamento.
Ipotesi moderne individuano come componenti del porto di Agrippa un bacino (E), moli in opera cementizia (F) e, nelle vicinanze dello sbocco della Crypta romana, le banchine (G) ed un bacino di carenaggio (H). Purtroppo tutta l'area è oggi soggetta ad un forte sfruttamento agricolo, cosicché di queste strutture quasi nulla è ormai visibile. Tuttavia, parzialmente nascosto da un fitto bosco, al confine con l'area dunare, spicca un affioramento di tufo (I) alto circa m. 8, sul quale furono ricavati in età romana due ambienti rettangolari in opera reticolata. Sul lato orientale del banco tufaceo si nota inoltre un lungo muro in reticolato e due speroni perpendicolari in opera vittata. La struttura, databile all'ultimo quarto del I sec. a. C., potrebbe rappresentare un piccolo faro di segnalazione posto presso il canale d'entrata (L) al porto.
Con la fine delle guerre civili, la concorrenza dei vicini grandi porti di Puteoli e Misenum e, soprattutto, il progressivo insabbiamento portarono abbastanza rapidamente al definitivo abbandono del porto di Cuma.
Il Foro cumano è oggi solo parzialmente in luce, in quanto ancora interrato nella parte orientale. Il suo aspetto attuale risale alla sistemazione monumentale che ricevette in età tardo- repubblicana.
Si tratta di una piazza rettangolare con orientamento E-O, simile per grandezza ai fori di Pompei e di Paestum (m. 50x120), collegata al tessuto urbano circostante da un sistema viario non perfettamente regolare, di cui oggi sopravvivono basoli e tracciati. Il lato breve occidentale era delimitato dal Capitolium, qui sensibilmente decentrato verso sud rispetto ai canoni dell'urbanistica ellenistica, che collocavano l'edificio principale del foro al centro del lato di fondo. Questa inusuale soluzione va forse spiegata con la necessità di rispettare in epoca romana monumenti e viabilità preesistenti.
I lati lunghi della piazza erano delimitati da porticati di età sillana in tufo grigio rivestito di stucco bianco: elevati su due ordini, essi presentavano semicolonne addossate a pilastri e un fregio dorico con triglifi e metope. Qualche decennio dopo, probabilmente in età triumvirale, fu aggiunto, nei pressi del Capitolium, un altro tratto, costituito da un doppio ordine di colonne (corinzio e ionico), a questo ampliamento è riconducibile il fregio continuo decorato con armi, di cui sono stati rinvenuti alcuni frammenti.
Alla fine del I sec. d.C., la strada che correva lungo il lato meridionale del Foro, parallela a quella proveniente dalla Crypta Romana, fu chiusa dalla costruzione di una fontana monumentale nel fianco del Capitolium: l'accesso alla piazza lungo questo lato fu quindi ridotto a una semplice porta che immetteva nel porticato.
In seguito alla costruzione sul lato meridionale del Foro del Tempio italico con portico, il piano di calpestio fu ribassato di cm. 50 ca. (cosicché oggi risultano in vista le fondazioni del portico), lievemente inclinato, in modo da convogliare le acque reflue in una canaletta di scolo, e pavimentato con lastre di travertino bianco.
La visita del Foro di Cuma inizia con il Capitolium, il cui ingresso si apre sul lato breve orientale, parallelo alla via Vecchia Licola.
Le Terme del foro furono edificate in pieno centro cittadino, a nord- ovest dell'area forense, in uno spazio precedentemente occupato da strutture risalenti al periodo repubblicano. L'edificio fu costruito in un momento di intensa attività edilizia, pochi decenni dopo l'apertura della via Domitiana (95 d.C.); tipologicamente richiama le Terme di via Terracina a Napoli e quelle del Foro a Ostia.

 

Il complesso era dotato di almeno due ingressi pubblici: quello a sud, sulla via che costeggia il Capitolium, immetteva nel corridoio porticato e nella palestra (A); il secondo, ad est, su una strada perpendicolare alla precedente, introduceva direttamente nel vestibolo (B). Questo vano comunica, mediante un passaggio colonnato, con il frigidarium (C), lungo i cui lati si notano due vasche per i bagni (D). A destra e a sinistra del vestibolo si aprono due ambienti (E) destinati alle attività che precedevano il bagno vero e proprio (spogliatoio, sala per massaggi, unzioni ecc. ) . Gli ambienti caldi, esposti a sud, rispettano la successione abituale: dai tepidaria (F) si passa nella sudatio (G) e, quindi, nel calidarium (H), dotato di tre vasche per i bagni (I). Ben visibile, sulla parete di fondo, è il fornice del praefurnium (L); da qui il calore si diffondeva nei vari ambienti attraverso il consueto sistema di intercapedini e di hypocausta. Il rifornimento idrico era assicurato da una cisterna (N) divisa in quattro serbatoi, posta su un alto podio a nord-ovest del corpo principale. In una seconda fase (III sec. d.C.) furono aggiunti alcuni ambienti con funzioni di servizio (M) e altri destinati al pubblico (O), e tutto il complesso subì una serie di restauri e consolidamenti. L'edificio doveva essere riccamente decorato, come dimostrano numerosi resti di rivestimenti: lastre di marmo, cornici di porfido, mosaici con tessere bianche e nere, zoccoli modanati, intonaci dipinti. Le coperture dovevano essere di diversi tipi (a botte, a crociera, a catino); l'illuminazione era assicurata da finestre e lucernari nelle volte. Persa la sua funzione termale, a partire dal V sec. d.C. un settore dell'edificio (vestibolo, sala fredda e cisterna) fu variamente riutilizzato (abitazione, magazzino agricolo o stalla).Il monumento, pur essendo rimasto nei secoli ben conservato e riconoscibile, non è stato ancora scavato; la cavea, suddivisa da moderni terrazzi per le coltivazioni, è attualmente occupata da un frutteto. Costruito in parte su di un terrapieno, in parte sfruttando, sul lato nord, la naturale pendenza del monte Grillo, l'anfiteatro presentava poche strutture in elevato. La fila di archi su pilastri relativi alla summa cavea, conservata quasi per intero, è infatti fondata direttamente sul terreno, senza che vi siano strutture sottostanti. L'asse maggiore (ca. m. 90) ha orientamento nord-sud; all'estremità nord vi doveva essere un accesso, corrispondente grosso modo a quello attuale della masseria; accanto a questo, inglobato nella masseria stessa, è conservato un ambiente in opera reticolata con volta a botte, probabilmente con funzioni di servizio. Un ingresso secondario doveva aprirsi all'incirca al centro del lato est del muro perimetrale esterno. Poco riconoscibile è oggi l'aspetto delle gradinate, completamente ricoperte dalle coltivazioni; già in antico esse comunque dovettero essere private dei rivestimenti.L'anfiteatro, privo di sotterranei, presenta significative analogie con quello di Pompei e con l'anfiteatro minore di Pozzuoli; appartenendo al tipo più antico di tali monumenti, va datato tra la fine del II sec. a.C. e l'inizio del I. Successivamente, forse nel corso del II sec. d.C., sembra sia stato interessato da un massiccio intervento di restauro. Nell'alto medioevo, nei pressi dell'Anfiteatro, ormai in disuso, furono impiantate delle fornaci che producevano ceramica "a bande larghe" (V-VIII sec. d.C.). Da questa zona provengono infatti diversi scarti di lavorazione, per lo più relativi a brocche, che attestano la produzione a Cuma di questa ceramica, utilizzata dalla comunità che risiedeva sull'acropoli. Tornati indietro alla Croce di Cuma, si svolta a destra per via Arco Felice Vecchio; nel primo tratto si fiancheggiano consistenti resti delle fortificazioni di età greca che cingevano il lato meridionale della polis.Benché la città cumana fosse stata indagata sin dall'inizio del Seicento, la scoperta delle sue necropoli avvenne assai più tardi e il caso volle che fossero proprio le tombe più antiche a essere scoperte per ultime.
Nel dare notizia, nei primi decenni del secolo scorso, del dono al Museo Borbonico a Napoli dei due noti crateri a campana con la raffigurazione di Triptolemo sul carro alato e quella dell'Aurora e di Cefalo che Luigi Correale aveva appena rinvenuto nella sua proprietà, lo Schulz, attento relatore degli scavi cumani, notava acutamente come, fino a quel tempo, non si conoscesse tra li vasi noti alcuno di stile arcaico contemporaneo ai tempi floridi della città. In un momento in cui erano ancora limitate le esplorazioni incontrollate che, negli anni successivi, e a lungo, avrebbero depauperato la vasta necropoli, lo studioso si augurava che per la storia delle arti si eseguissero scavi più estesi in quel sito della più antica tra le colonie greche dell'Italia. Fino ad allora gli interventi esplorativi condotti dal Cavaliere D. Santangelo, dal Duca di Blacas, dal canonico A. De Jorio e da molti altri, avevano riportato in luce solo corredi appartenenti a sepolture databili tra l'epoca sannita e il periodo romano. E' però proprio nel podere di L. Correale, appena fuori del perimetro delle mura greche, che Leopoldo di Borbone, conte di Siracusa, fratello di Ferdinando II, pochi anni più tardi (1852- 1857) rinvenne, accanto a numerose sepolture di epoche varie, alcune tra le più antiche tombe cumane. L'associazione degli oggetti depositati in queste tombe cosiddette preelleniche, perché relative al villaggio indigeno preesistente all'installazione dei coloni greci, fu purtroppo persa all'atto dello scavo, così come furono trascurati gli aspetti del rito funerario.
I successivi ritrovamenti di tombe, grosso modo coevi, fatti nello stesso appezzamento di terreno da E. Stevens (1893), uno dei più instancabili e, per il suo tempo, uno dei più attenti scavatori di Cuma, e in terreni confinanti, verso la fine del 1903, da I. Dall'Osso e E. Osta, non integrano che parzialmente questa lacuna.
Le tombe preelleniche appartengono a una comunità della cultura meridionale delle tombe a fossa della prima età del Ferro, stabilita verosimilmente sul Monte di Cuma, come sembrerebbero indicare i risultati della puntuale indagine fatta eseguire dall'allora principe ereditario, il futuro Re Vittorio Emanuele III, nel 1897 nei pressi del <<Tempio di Giove>>. Alcuni vasi mostrano strette affinità con il patrimonio ceramico della seconda fase non molto inoltrata della cultura laziale (830-770 a.C.) e con la ceramica delle altre necropoli dell'Italia meridionale appartenenti alla medesima cultura. Stevens descrive sei tombe indigene scavate tra ottobre e novembre 1883 nel Parco Cimitero (Fondo Correale) e nel Fondo Gennaro d'Isanto dentro le mura di Cuma.
Numerose sono però le altre tombe preelleniche che scavò dopo questa data, nel terreno della sorella di G. d'Isanto, ma che non descrisse nei suoi diari e i cui corredi sono purtroppo andati smembrati. Sono sepolture a fossa rettangolari con angoli arrotondati con orientamento E-O, di dimensioni alquanto diverse tra loro; le fosse erano delimitate e riempite da pietre tufacee. Alcuni schizzi eseguiti sullo scavo stesso dallo Stevens precisano le modalità della deposizione. Lo scheletro supino, con la testa (quando è indicato) orientata a est era disposto nella nuda terra (controversa è la sua sistemazione in cassa avanzata dallo Stevens) con un vestito ricco di ornamenti personali in bronzo e un corredo formato da alcuni vasi di impasto deposti per lo più vicino al cranio.Particolari oggetti, armi per gli uomini, fusi, fusaiole, rocchetti per le donne, erano elementi distintivi legati al ruolo rispettivo dei due sessi nell'ambito della collettività. La ceramica d'impasto nera levigata e lucidata è costituita da tipi e forme vari (anfore a corpo globulare o biconico, brocche, tazze profonde con ansa a bifora, scodelle monoansate), dalla lavorazione accurata e decorata con motivi plastici di bugne e costolature rade e motivi incisi. Accanto alle perle d'ambra di varie forme e dimensioni sono numerose le perle di pasta vitrea, spesso con occhi di pasta bianca; più rari gli oggetti di ornamento personale in osso.
In seguito, la necropoli indigena andrà depredata dagli stessi scavatori del conte di Siracusa e da tanti altri, spesso anche con regolare licenza. La maggior parte del materiale rinvenuto sarà venduto al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (collezioni Correale, Lubrano, Item, de Criscio) dove, insieme a quello degli scavi Stevens relativi a tutti i periodi della necropoli, costituirà la nota Collezione Cumana. Vari nuclei, però, andranno ad arricchire le raccolte dei Musei italiani (tra cui quelle del Museo Preistorico ed etnografico <<L. Pigorini>> di Roma, del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, del Museo Civico di Baranello).
L'immagine che ci è conservata è quella di una comunità fiorente con un processo di differenziazione sociale già compiuto, riscontrabile nella disuguaglianza nello standard dei corredi funerari, e dallo scorcio del nono e all'inizio dell'ottavo secolo a.C., in contatto con l'ambiente villanoviano. A partire dal secondo quarto non inoltrato dell'VIII secolo a.C., la presenza di ceramica euboica e attica (le coppe à chevrons delle tombe 3 e 29 dello scavo Osta) indica in modo tangibile il precoce impatto con il mondo greco e l'inserirsi nei flussi più vitali che collegano e avvicinano le comunità italiche del versante tirrenico. Il processo di formazione di questa comunità ha forse avuto inizio in un momento avanzato del Bronzo finale (XI-X sec a.C.), data alla quale risalgono i bronzi sporadici (fibule, rasoi, torques ecc.) rinvenuti dallo Stevens nel corso dei suoi scavi. Essi devono essere riferiti a un nucleo più antico di tombe di cui ignoriamo del tutto l'ubicazione, ma che potrebbero essere coeve al villaggio rivelato dai sondaggi di Buchner vicino al tempio di Apollo. Tuttavia gli elementi oggi in nostro possesso per accertare una eventuale soluzione di continuità tra i due periodi di vita sono troppo scarsi e per il momento manca la possibilità di ricostruire i processi che hanno determinato il quadro culturale che abbiamo di fronte.
Rimane preziosa, in assenza di scavi nuovi, l'ampia documentazione sulle tombe greche del primo Orientalizzante lasciata dallo Stevens nei suoi diari, anche se lo studioso nega la possibilità di conoscere compiutamente i raggruppamenti familiari e di valutare in modo incisivo una qualche stratigrafia orizzontale. L'immagine che abbiamo è profondamente mutata in rapporto al periodo precedente, sia nel patrimonio vascolare che nel rituale funerario. E' ora simile a quello ampiamente documentato a Ischia, nella necropoli di San Montano: tombe a cremazione sotto un tumulo, per gli adulti, tombe a fossa in cassa, per gli adolescenti, tombe a enchytrismos, per i bambini.
Il ceto eminente della nuova colonia, nella tradizione degli Hippobotai euboici, aristocratici detentori del potere politico e militare, usa farsi seppellire alla stregua dei nobili eroi di cui Omero riporta il complesso rituale: i resti del corpo bruciati sulla pira, deposti in un recipiente di bronzo o di altro materiale prezioso e avvolti in un panno di lino, prendono posto in un ricettacolo di tufo a forma di dado. Solo un corredo metallico (costituito da beni personali, da doni di prestigio, come gli scudi villanoviani delle tombe 104 Artiaco, XI, LVI e LIX Stevens, e da armi) appare degno di accompagnare il defunto verso la sua ultima sponda. Nel mondo coloniale, il gruppo egemone rimane fedele alla tradizione eroica, seguendo, però, regole meno rigide e compatte che nella madrepatria: nelle tombe XIII e XIV Stevens, appartenenti allo stesso nucleo familiare, le ossa combuste sono semplicemente deposte nel ricettacolo di tufo, assieme a skyphoi e lekythoi del Protocorinzio antico e a pochi oggetti personali in argento e pasta vitrea, senza contenitore metallico.
Nella grandiosa tomba 104 che G. Maglione scavò nel 1902 nel fondo Artiaco era posto, anche se solo per il pregio del suo contenuto, un recipiente ceramico: un'anfora attica del tipo SOS, la cui presenza deroga indubbiamente dalla tradizione. Altre tombe <<principesche>> rinvenute da E. Stevens e dal conte di Siracusa sono custodite nel Museo Archeologico di Napoli. Altre, scavate clandestinamente, hanno visto gli elementi più importanti del loro corredo smembrato finire in vari musei europei, come il calderone di bronzo con applicazione di protome taurina di tipo urarteo del museo di Copenaghen.
Buona parte della Collezione Cumana, nel Museo Archeologico di Napoli, copre i periodi arcaico e sannitico. Scarsi sono i corredi delle tombe della fine del VII e del VI sec. degli scavi Stevens che si sono potuti ricostruire. Il bucchero appare pressocché assente, al contrario della ceramica corinzia che è piuttosto abbondante e seriale; verso la fine del VI sec. a.C. fa la sua apparizione la ceramica calcidese. A partire dal V sec. a.C. è presente anche la ceramica attica, spesso di notevole qualità. Vanno segnalati, per il periodo arcaico, perché costituiscono una categoria di una certa consistenza, i bronzi, in parte certamente di provenienza etrusca (i bacini a orlo perlato, con motivo a treccia, le cosiddette <<caldaie>> formate da due lamine inchiodate, le situle akalathos) o di altre provenienze ma giunti in Campania tramite il commercio etrusco (le ciste a cordoni, in particolare), nei quali erano riposte le ceneri degli adulti di ceto <<aristocratico>>, continuando in qualche modo la tradizione del calderone-cinerario entro ricettacolo di tufo del periodo Orientalizzante.
Sempre a questa tradizione si rifà la sepoltura della I metà del V sec. a.C., in una cista di piombo (scavo 1889) contenente i resti combusti di un guerriero e il suo armamentario (spade, lance, elmo). Eccezionale appare la coeva tomba XXXI dello scavo L. Granata nel Fondo Correale (1908), costituita da un sarcofago in marmo calcidico, purtroppo andato perduto, entro un cassone di tufo.
Della ricchezza di monumenti sepolcrali che si addensarono, dall'epoca sannitica a quella imperiale, ai lati della via Vecchia Licola, sono oggi visibili solo pochi edifici funerari di particolare importanza. Le mura e le volte dei colombari di età repubblicana e imperiale, assai vicini quanto a tipologia a quelli della necropoli puteolana, che fino a pochi decenni fa affioravano per ogni dove, sono, tranne quello rinvenuto nel 1853 nel fondo di Stanislao Palumbo, ora ricoperti da folta vegetazione.
E' però visibile nel fondo Artiaco (dove era stato esplorato un gruppo di tombe di epoca orientalizzante tra cui emergeva, per la ricchezza del suo corredo, la tomba 104 e dove già il conte di Siracusa e Gaetano Maglione avevano rinvenuto tombe a camera con scheletri inumati e olle cinerarie con monete che vanno dal I sec. fino ai primi decenni del IV sec. d.C.) una grande tomba sannitica a tholos.

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