domenica 21 aprile 2013

LE STELLE DI NEUTRONI E BUCHI NERI


Da quando i Pitagorici cominciarono a considerare la matematica fondamentale per la conoscenza della natura (nel loro caso essa costituiva la realtà stessa), la scienza ha iniziato un lungo duplice cammino che si è sviluppato in due direzioni: l’osservazione della natura, di cui essa è descrizione, e lo sviluppo teorico dei suoi modelli descrittivi. Tali direzioni, anche se talvolta sono parse indipendenti, hanno spesso finito con il congiungersi, specie quando, all'inizio del novecento il nuovo vento della Relatività e della Fisica dei Quanti ha aperto la strada alla lettura dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo.
Quello che vi presentiamo qui è una minuscola parte delle complesse conseguenze di questo percorso, che ci ha permesso di entrare nell'interno delle stelle e di immaginare con gli strani occhi della Fisica ciò che mai potremo vedere.


Come è ormai noto a molti il nostro Sole è una stella del tutto simile a tante altre che popolano la nostra e tutte le altre galassie; esso irraggia la Terra e tutto il sistema solare allo stesso modo da circa 5 miliardi di anni diffondendo nello spazio la sua luce gialla. Il suo colore ci informa sulla sua temperatura superficiale (5.500° Kelvin) e indirettamente anche sulla sua massa e sulle sue condizioni fisiche interne.
Oggi abbiamo appreso che tutta la sua enorme energia è prodotta da reazioni termonucleari che avvengono nelle sue regioni più interne caldissime (a temperature di milioni di gradi), nelle quali nuclei di Idrogeno (protoni) urtando tra di loro si trasformano in nuclei di Elio (2 protoni e 2 neutroni) e in altri sempre più complessi con considerevole guadagno di energia; non solo, ma siamo anche stati in grado di riprodurre alcuni di tali processi sulla Terra, e stiamo tuttora tentando di trarne giovamento (si pensi ai tentativi di riprodurre in laboratorio la “fusione nucleare controllata” e ai vantaggi cospicui che essa apporterebbe alla nostra civiltà).
Ma abbiamo anche appreso che tra altri 5 miliardi di anni il Sole cesserà di esistere, proprio perché il suo “combustibile” non produrrà più energia sufficiente per mantenerlo nelle attuali condizioni. L’energia sviluppata nel nucleo solare infatti gli è sufficiente per sostenersi sul proprio peso ed evitare di “collassare”, cioè di contrarsi per effetto della sua gravità. Quando nel Sole dunque le reazioni termonucleari non avverranno più in quantità sufficiente, dapprima si contrarranno le zone più interne sviluppando, per effetto della contrazione, radiazione così intensa ed energetica da produrre un’azione meccanica sugli strati più esterni che si espanderanno spingendosi fino all’orbita di Marte ed oltre (già allora la Terra non esisterà più).
Il Sole diverrà una “Gigante rossa” dalla temperatura esterna di 3.000° circa. Nell’arco di qualche centinaio di milioni di anni parte degli strati più esterni si disperderà e la materia residua del Sole completerà la sua contrazione finché nel suo interno delle minuscole particelle, gli elettroni, non verranno a trovarsi così vicine le une alle altre da impedire il proseguimento della contrazione, esercitando una forte pressione che creerà una strana piccola stella in equilibrio, caldissima (100 milioni di gradi) e densissima (il Sole avrebbe un raggio di qualche migliaio di chilometri): diverrà allora una “nana bianca”, ormai morta e destinata a raffreddarsi inesorabilmente nell’arco di miliardi di anni dopo aver irraggiato tutta la sua energia senza redintegrarla attraverso alcun meccanismo. Sarà dunque una fine lenta, non seguita ad alcuna catastrofe stellare: ma non per tutte le stelle la morte è stato è e sarà evento così “quieto”. Stelle di massa maggiore del Sole, più luminose e più calde (dalla luce bianca azzurra e blu), possono evolvere in modo diverso.
Se la massa della stella è infatti superiore a 1,5 masse solari circa (il limite di “Chandraseckar”, dal nome dell’astrofisico teorico che lo calcolò), la pressione verso l’esterno dovuta agli elettroni stipati nel cuore della stella (“elettroni degeneri”) non è più sufficiente a conservare la struttura della “nana bianca”, che diviene instabile. Ciò determina la contrazione violenta, detta anche collasso, del nucleo stellare: secondo uno dei modelli dinamici studiati, il collasso avviene come processo implosivo con formazione di un’onda d’urto che, riflettendosi poi contro gli strati più densi produce una violenta esplosione della stella che scaglia nello spazio buona parte della materia stellare accompagnata da una grande quantità di radiazione ad alta frequenza (raggi g). Questa sequenza di eventi è quella che produce il fenomeno delle “Supernovae”, stelle che aumentano improvvisamente la loro luminosità fino ad un miliardo di volte rispetto al valore di quiescenza, e la cui luce analizzata spettroscopicamente rivela che la materia degli strati più esterni della stella si sta espandendo con una velocità fino a 10.000 Km/sec. Il primo protagonista del nostro racconto è proprio il resto stellare superstite di questa esplosione.

Le stelle di neutroni
Una stella la cui massa è superiore al limite di Chandraseckar non può trasformarsi dunque in una nana bianca stabile; al suo interno gli elettroni sono ridotti a densità così elevate che cominciano a combinarsi con i protoni per effetto di una forza a corto raggio, l’“interazione debole”, e a formare neutroni (occorre ricordare che alle densità per noi usuali la reazione di scomposizione, o “decadimento”, del neutrone in un protone, un elettrone ed un neutrino, è nettamente più probabile della reazione opposta). Si forma quindi all’interno del residuo stellare dell’esplosione della Supernova, un gas di neutroni liberi: il loro comportamento statistico a densità prossime al miliardo di tonnellate per centimetro cubo è del tutto simile a quello degli elettroni nelle nane bianche, e produce una pressione complessiva elevatissima che blocca la contrazione gravitazionale del frammento restante di nucleo stellare; quest’ultimo diviene dunque una “stella a neutroni”. La densità di una stella di neutroni è tale che a quella densità il Sole verrebbe ad avere un raggio di circa una decina di chilometri: a quelle densità così elevate la gravità superficiale è così elevata da condizionare tutti i fenomeni fisici. Quello delle stelle di neutroni è un mondo fisico da ridisegnare considerando l’influenza che la forza gravitazionale, come Albert Einstein ed i suoi allievi dimostrarono, ha sullo spazio intero, sulla sua geometria. Ma lo spazio che la teoria della Relatività studia, non è lo spazio euclideo tridimensionale sperimentato dai nostri sensi, bensì uno spazio matematico a quattro dimensioni, nel quale il tempo è la quarta dimensione fisica soggetta a trasformazioni da un sistema di riferimento all’altro simili a quelle delle ordinarie dimensioni spaziali.
Di questo mondo fisico quello che noi percepiamo ad ogni istante è soltanto una proiezione tridimensionale; nonostante ciò anche nel nostro mondo sensibile si sono potute individuare prove osservative della sua validità, come lo scorrere anomalo del tempo, più lentamente dove il campo gravitazionale è più forte, o la deviazione della luce in prossimità di un forte campo gravitazionale (la gravità devia la luce allo stesso modo della materia), o quelle anomalie dell'orbita di Mercurio intorno al Sole che la meccanica celeste non era mai riuscita a spiegare.
In base a questa visione del mondo un osservatore che sulla superficie della stella di neutroni (prima di essere schiacciato dalla terribile gravità del pianeta) si osservasse le scarpe le vedrebbe di un colore diverso da quello osservato sulla Terra, a causa della perdita di energia, quindi del conseguente arrossamento, della luce in uscita da un punto più vicino al centro di gravità ad un punto più esterno nel quale la gravità è più debole. Inoltre se, per assurdo, vi riuscisse a sopravvivere, le sue gambe invecchierebbero assi più lentamente delle parti superiori del suo corpo.
Questi due effetti sono entrambi connessi all’influenza della gravità sul tempo; tale influenza è tanto più marcata quanto più il raggio di un oggetto celeste contratto si avvicina a quello al quale la gravità superficiale è talmente forte da impedire alla luce di uscire dal campo gravitazionale dell’oggetto stesso (che per un corpo a simmetria sferica è uguale al cosiddetto raggio di Schwartzschild:
2 G M
Rs = —————
c
2
dove M è la massa del corpo, è la velocità della luce e G è la costante gravitazionale presente nella legge di Newton).
Il primo in particolare ci permette di comprendere come l’osservazione di oggetti assai densi, il cui spazio-tempo è “deformato” da una così elevata gravità superficiale, sia assai ardua non solo per le piccole dimensioni di tali oggetti ma anche per la perdita di energia subita dalla luce nell’allontanarsi dalla loro superficie (proprio come un oggetto lanciato verso l’alto sulla Terra perde energia cinetica salendo). Tuttavia un meccanismo assai complesso permette a questi oggetti di segnalare la loro presenza nell’universo; tale meccanismo ha una sua giustificazione teorica nelle leggi dell’elettromagnetismo.

Per fornire un’idea di tale meccanismo occorre ricordare anzitutto che ogni stella è dotata di un campo magnetico che si amplifica quando la stella si contrae (poiché durante la contrazione le linee di forza del campo si infittiscono) e che la rotazione complessiva (definita da una grandezza dinamica detta “momento angolare” e data dal prodotto della massa del corpo per il suo raggio per la sua velocità di rotazione per un fattore geometrico dipendente dalla forma del corpo e dal suo asse di rotazione) della stella in contrazione si conserva in modo che al diminuire del suo raggio aumenti la sua velocità di rotazione (per lo stesso meccanismo che fa sì che una pattinatrice su ghiaccio ruoti più velocemente su se stessa quando si raccoglie e più lentamente quando apre le braccia); accade inoltre che l’asse del campo magnetico risulti non allineato con l’asse di rotazione della stella e che per tale rapido moto rotatorio descriva una superficie conica (“rotatore obliquo”). Il forte campo magnetico determinato dalla contrazione ruotando velocemente intorno ad un asse diverso dal proprio asse di simmetria funge da potentissimo acceleratore di particelle cariche, portando elettroni superstiti strappati alla superficie della stella a velocità prossime alla velocità della luce (relativistiche). Tale flusso di particelle, interagendo con il forte campo magnetico della stella, emette una notevole quantità di radiazione elettromagnetica strettamente collimata in direzione dell’asse del campo magnetico stesso e, poiché esso ruota velocemente anche la direzione del fascio di rotazione ruoterà nello spazio come il fascio luminoso emesso da un faro rotante (per questo motivo tale effetto viene definito “effetto faro”). Un osservatore lontano può trovarsi, nel caso più fortunato, allineato periodicamente con il fascio di radiazione, proprio come accade con un’osservatore che osserva la luce di un faro rotante, e quindi riceverà un segnale costituito da impulsi periodici a varie frequenze (X, radiazione luminosa, radiofrequenze): ciò costituisce il fenomeno delle “pulsar” (abbreviazione da “pulsating radio sources”).
Quando nel 1967 l’antenna del radiotelescopio di Cambridge captò casualmente un segnale radio pulsante proveniente dalla 
nebulosa del granchio, nella costellazione del Toro, sebbene fosse già nota da tempo la teoria del collasso gravitazionale, non si immaginava ancora la connessione tra un fenomeno simile e quel complesso quadro teorico. Quel segnale proveniente dallo spazio ispirò inizialmente suggestive ipotesi su possibili contatti con civiltà extraterrestri, e questo suggerì il nome del primo progetto di ricerca rivolto alla sua rilevazione e allo studio delle sue caratteristiche: “little green men”, “piccoli uomini verdi”. Da allora decine di oggetti di questo tipo sono stati scoperti con i radiotelescopi ed individuati otticamente come debolissime stelle, spesso collocate al centro di resti nebulari dell'antica esplosione di una Supernova (proprio come nel caso della pulsar della nebulosa del granchio), a conferma delle complesse formulazioni teoriche che sono state qui riassunte in sintesi.
Buchi neri.
La teoria della relatività generale, e in particolare lo studio della stabilità di una struttura stellare in presenza di un forte campo gravitazionale, pone dei limiti abbastanza stretti alla stabilità di una stella a neutroni. Accade infatti che, se il frammento stellare superstite dell’esplosione di una Supernova supera la massa di 0,7 masse solari, la pressione dei neutroni compressi all’interno della stella (neutroni “degeneri”) non sia sufficiente a bilanciare il peso complessivo dell’oggetto all’elevata densità tipica di “mostri” di questo tipo. Dunque la contrazione prosegue finché la superficie della stella raggiunge il limite minimo al quale la gravità superficiale è così forte che nessun segnale elettromagnetico può più essere emesso dalla superficie della stella che diviene quindi un corpo completamente oscuro: un “buco nero”. Essa allora scompare al di là di una sorta di orizzonte oltre il quale nessun fenomeno diviene più osservabile in alcun modo, e che viene dunque definito “orizzonte degli eventi”. Per la verità la materia stellare diviene invisibile prima che la superficie stellare raggiunga l’orizzonte degli eventi a causa della fortissima perdita di energia dovuta all’intensissimo campo gravitazionale (si calcola che una stella a simmetria sferica in collasso gravitazionale emetta radiazione elettromagnetica trascurabile già ad un raggio uguale a 3/2 del raggio di Schwartzschild). Va detto che la dilatazione del tempo per effetto del campo gravitazionale è tale che mentre un osservatore (sfortunato!) in caduta sulla superficie della stella misurerebbe un tempo di collasso finito fino all’orizzonte degli eventi, un osservatore lontano dovrebbe vedere lo stesso collasso stellare svolgersi in un tempo infinito, cioè non potrebbe assistere mai alla formazione del “buco nero” vero e proprio. Tuttavia il fatto che la stella divenga praticamente invisibile prima del raggiungimento dell’orizzonte degli eventi, fa sì che un osservatore possa comunque assistere alla sua formazione o riconoscerne l’esistenza. Ma se da un buco nero non può uscire una sia pur minima quantità di radiazione elettromagnetica, come può un oggetto simile segnalare la sua presenza?
Ricordiamo a questo proposito l’approfondita e articolata analisi teorica del problema che ha portato alla formulazione del teorema cosiddetto “black holes have no hair” (i buchi neri non hanno capelli), su cui lavorarono negli anni '70 Hawking, Carter, Israel e Robinson e che afferma che le uniche informazioni che un buco nero trasmette delle sue condizioni fisiche nello spazio circostante, sono la sua massa, la sua carica e la sua eventuale rotazione eventuali (quest’ultima indicata dal suo momento angolare) che contribuiscono a determinarne la geometria.
Riconoscere buchi neri: il quadro delle possibili osservazioni.
Naturalmente l’osservazione diretta di un buco nero non è possibile; tuttavia, secondo le formulazioni teoriche fondate sulla teoria della relatività generale, esso può modificare lo spazio circostante in modo tale da determinare fenomeni osservabili o comunque rilevabili da strumenti sensibili a radiazione elettromagnetica di vario tipo. L’osservazione di tali fenomeni può costituire una prova indiretta dell’esistenza di questi oggetti. I buchi neri si possono manifestare in diversi modi:
  1. nel caso di buchi neri isolati, collocati in una regione dello spazio a bassissima densità, si può verificare che la luce di un oggetto collocato al di là del buco, sulla sua stessa direzione venga deflessa per effetto della curvatura dello spazio prodotta dal campo gravitazionale del buco nero, e l’immagine del corpo celeste risulti distorta o comunque modificata come se fosse osservata attraverso una lente (tale effetto si dice infatti “lente gravitazionale”).
  2. Per buchi neri isolati circondati da materia interstellare il campo gravitazionale intorno al buco è così intenso da provocare la caduta della materia nel buco. La materia interstellare cadendo lungo traiettorie a spirale verso l’orizzonte degli eventi si riscalda e comincia ad emettere radiazione elettromagnetica in tutte le frequenza. Tuttavia va detto che la materia interstellare è assai rarefatta e la quantità di materia che cade nel buco è, con ogni probabilità, insufficiente a produrre un emissione rilevabile.
  3. Come accade che, in base alla teoria dell’elettromagnetismo, una carica elettrica che subisce una accelerazione emette radiazione elettromagnetica, allo stesso modo, in base alla teoria relativistica della gravitazione, si ha che l’oscillazione di una massa produce una oscillazione dello spazio che si propaga in forma di radiazione gravitazionale. Poiché la radiazione gravitazionale prevista in teoria è molto debole, essa è assai difficile da rilevare. Gli eventi che possono produrre una radiazione gravitazionale che può essere rilevata sono fenomeni di notevole entità in cui sono coinvolte grandi masse o grandi quantità di energia (collasso gravitazionale ed esplosione di una Supernova, caduta di una stella in un buco nero o collisione tra buchi neri, fenomeni, questi ultimi, che potrebbero verificarsi nelle regioni centrali delle galassie o degli ammassi stellari più ricchi). Allo stato attuale non è stato effettuato alcun rilevamento significativo di radiazione gravitazionale con gli strumenti realizzati a tale scopo.
  4. Se un buco nero si forma in un sistema binario, il suo forte campo gravitazionale attrae materia della stella compagna, e tale materia, cadendo nel buco lungo traiettorie a spirale, si addensa in un disco di accrescimento che cresce di dimensioni fino a raggiungere una situazione stazionaria (nella quale la quantità di materia che arriva dall’esterno è uguale a quella che scende nel buco dall’interno). All’interno del disco, compressione e vorticità portano la materia a raggiungere temperature elevatissime (decine di milioni di gradi) sufficienti a produrre una emissione termica di radiazione X.
    L’invio nello spazio di satelliti artificiali su cui sono stati montati sensori a raggi X (telescopi X), hanno permesso di sviluppare fin dagli anni '70 una “astronomia X”. Tra i primi obiettivi di studio ed osservazione vi fu una sorgente X identificata con un sistema binario, trovata nella costellazione del Cigno, catalogata come Cygnus X-1, della quale fu poi studiata attentamente l’emissione per dedurne le dimensioni dell’oggetto responsabile di essa (compatibili con quelle previste dal modello teorico di buco nero X-emittente in un sistema binario), mentre dal moto della stella compagna in rotazione intorno al sospetto buco nero si è dedotta una stima della massa del buco, pari a circa nove masse solari (ben superiore cioè al massimo valore per una massa di stella a neutroni stabile).
  5. Può essere accaduto nella fase iniziale della vita dell’universo che si siano create le condizioni per la formazione di buchi neri di piccole dimensioni (1015g, un miliardo di miliardi di volte inferiore a quella solare); creatisi in seguito al formarsi di situazioni di instabilità gravitazionale alle elevate densità della materia primordiale dell’universo. Queste instabilità si sarebbero amplificate dando luogo a un processo di contrazione gravitazionale inarrestabile. Si è supposto anche che simili buchi neri siano molto diffusi nello spazio, e che costituiscano la maggior parte della massa dell’universo. A tali buchi neri sarebbero, naturalmente, associati meccanismi di produzione di una grande quantità di radiazione ma, dal momento che non si vede traccia di tale irraggiamento nello spazio, si considera oggi improbabile che tali oggetti si siano formati.
    Molto più probabile pare al contrario la formazione di buchi neri di massa molto grande (105 dalle alle 109 masse solari) al centro di grandi sistemi stellari, come ad esempio nel cuore delle galassie. Pare che questa possa essere la causa dell’attività dei nuclei galattici che si manifesta mediante l’emissione di radiazione elettromagnetica in grande quantità, come ad esempio accade per le cosiddette “radiogalassie”. La loro emissione radio, estesa ad una zona molto più grande delle dimensioni della galassia visibile, è prodotta molto probabilmente da fasci di elettroni riforniti di energia da complicati processi che possono avvenire nei pressi di un grande buco nero centrale in rotazione su se stesso. Un contributo significativo alla ricerca teorica per la costruzione di modelli di grandi buchi neri fu fornito dal fisico inglese Roger Penrose che studiò la possibilità che in una regione particolare collocata immediatamente al di fuori dell’orizzonte degli eventi, detta “ergosfera”, una qualsiasi particella potesse frammentarsi in due parti, una della quali, essendo dotata di energia negativa e cadendo dentro il buco, finirebbe col ridurre l’energia complessiva del buco stesso.
    La parte restante della particella, di energia positiva, invece sarebbe libera di allontanarsi portando con sé, per la conservazione dell’energia, una quantità di energia pari a quella persa dal buco nero. Tale meccanismo di estrazione di energia da un buco nero (applicazione teorica della teoria relativistica della gravitazione e della meccanica quantistica) viene denominato oggi “processo di Penrose”.
    I modelli teorici dei buchi neri possono prevedere ciò che accade fuori dell’orizzonte degli eventi, ma non forniscono alcuna indicazione fisicamente credibile su che cosa accade alla materia della stella dopo che questa si è contratta fino alle dimensioni di un buco nero.
    La teoria della relatività generale è solo in grado di prevedere che la materia continuerà a collassare fino a trovarsi tutta concentrata in un punto in modo che la sua densità risulti infinita (è ciò che viene indicato con il termine matematico di “singo-larità”). Qualcuno ritiene forse che non sia importante sapere che cosa accade là dentro; del resto Steven Hawking ha dimostrato che nello spazio non può esistere un “singolarità nuda”: ciò significa, a grandi linee, che la geometria dello spazio non consentirà mai che un simile punto a densità infinita sia osservabile.
    Tuttavia l’uomo nella sua eterna sfida contro i propri limiti, è convinto di poter capire il destino di quella materia “persa” e, se da un lato non può osservarla direttamente, dall’altro però, attingendo agli strumenti matematici più sofisticati, rivolge su di essa l’occhio della sua mente, perfettamente consapevole di conoscere infinitamente meno di ciò che si può e si potrà imparare, e fiducioso che questa sia la sola strada che lo può portare oltre le colonne d’Ercole dell’incalcolabile.
    planet.racine.ra.it


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